Messaggio del Santo Padre
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Pubblichiamo di seguito il Messaggio del Santo Padre Leone XIV per la IX Giornata Mondiale dei Poveri che sarà celebrata domenica 16 novembre 2025:
Messaggio del Santo Padre
«Sei tu, mio Signore, la mia speranza» (Sal 71,5)
1. «Sei tu, mio Signore, la mia speranza» (Sal 71,5). Queste parole sono sgorgate da un cuore oppresso da gravi difficoltà: «Molte angosce e sventure mi hai fatto vedere» (v. 20), dice il Salmista. Nonostante questo, il suo animo è aperto e fiducioso, perché saldo nella fede, che riconosce il sostegno di Dio e lo professa: «Mia rupe e mia fortezza tu sei» (v. 3). Da qui scaturisce l’indefettibile fiducia che la speranza in Lui non delude: «In te, Signore, mi sono rifugiato, mai sarò deluso» (v. 1).
In mezzo alle prove della vita, la speranza è animata dalla certezza, ferma e incoraggiante, dell’amore di Dio, riversato nei cuori dallo Spirito Santo. Perciò essa non delude (cfr Rm 5,5) e San Paolo può scrivere a Timoteo: «Noi ci affatichiamo e lottiamo, perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente» (1Tm 4,10). Il Dio vivente è infatti il «Dio della speranza» (Rm 15,13), che in Cristo, mediante la sua morte e risurrezione, è diventato «nostra speranza» (1Tm 1,1). Non possiamo dimenticare di essere stati salvati in questa speranza, nella quale abbiamo bisogno di rimanere radicati.
2. Il povero può diventare testimone di una speranza forte e affidabile, proprio perché professata in una condizione di vita precaria, fatta di privazioni, fragilità ed emarginazione. Egli non conta sulle sicurezze del potere e dell’avere; al contrario, le subisce e spesso ne è vittima. La sua speranza può riposare solo altrove. Riconoscendo che Dio è la nostra prima e unica speranza, anche noi compiamo il passaggio tra le speranze effimere e la speranza duratura. Dinanzi al desiderio di avere Dio come compagno di strada, le ricchezze vengono ridimensionate, perché si scopre il vero tesoro di cui abbiamo realmente necessità. Risuonano chiare e forti le parole con cui il Signore Gesù esortava i suoi discepoli: «Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano» (Mt 6,19-20).
3. La più grave povertà è non conoscere Dio. È questo che ci ricordava Papa Francesco quando in Evangelii gaudium scriveva: «La peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede» (n. 200). C’è qui una consapevolezza fondamentale e del tutto originale su come trovare in Dio il proprio tesoro. Insiste, infatti, l’apostolo Giovanni: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
È una regola della fede e un segreto della speranza: tutti i beni di questa terra, le realtà materiali, i piaceri del mondo, il benessere economico, seppure importanti, non bastano per rendere il cuore felice. Le ricchezze spesso illudono e portano a situazioni drammatiche di povertà, prima fra tutte quella di pensare di non avere bisogno di Dio e condurre la propria vita indipendentemente da Lui. Ritornano alla mente le parole di Sant’Agostino: «Tutta la tua speranza sia Dio: sentiti bisognoso di Lui, per essere da Lui ricolmato. Senza di Lui, qualunque cosa avrai servirà a renderti ancora più vuoto» (Enarr. in Ps. 85,3).
4. La speranza cristiana, cui la Parola di Dio rimanda, è certezza nel cammino della vita, perché non dipende dalla forza umana ma dalla promessa di Dio, che è sempre fedele. Perciò i cristiani, fin dalle origini, hanno voluto identificare la speranza con il simbolo dell’àncora, che offre e stabilità e sicurezza. La speranza cristiana è come un’àncora, che fissa il nostro cuore sulla promessa del Signore Gesù, il quale ci ha salvato con la sua morte e risurrezione e che tornerà di nuovo in mezzo a noi. Questa speranza continua a indicare come vero orizzonte di vita i «nuovi cieli» e la «terra nuova» (2Pt 3,13), dove l’esistenza di tutte le creature troverà il suo senso autentico, poiché la nostra vera patria è nei cieli (cfr Fil 3,20).
La città di Dio, di conseguenza, ci impegna per le città degli uomini. Esse devono fin d’ora iniziare a somigliarle. La speranza, sorretta dall’amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfr Rm 5,5), trasforma il cuore umano in terra feconda, dove può germogliare la carità per la vita del mondo. La Tradizione della Chiesa riafferma costantemente questa circolarità fra le tre virtù teologali: fede, speranza e carità. La speranza nasce dalla fede, che la alimenta e sostenta, sul fondamento della carità, che è la madre di tutte le virtù. E della carità abbiamo bisogno oggi, adesso. Non è una promessa, ma una realtà a cui guardiamo con gioia e responsabilità: ci coinvolge, orientando le nostre decisioni al bene comune. Chi manca di carità, invece, non solo manca di fede e di speranza, ma toglie speranza al suo prossimo.
5. Il biblico invito alla speranza porta dunque con sé il dovere di assumersi coerenti responsabilità nella storia, senza indugi. La carità, infatti, «rappresenta il più grande comandamento sociale» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1889). La povertà ha cause strutturali che devono essere affrontate e rimosse. Mentre ciò avviene, tutti siamo chiamati a creare nuovi segni di speranza che testimoniano la carità cristiana, come fecero molti santi e sante in ogni epoca. Gli ospedali e le scuole, ad esempio, sono istituzioni create per esprimere l’accoglienza dei più deboli ed emarginati. Essi dovrebbero far parte ormai delle politiche pubbliche di ogni Paese, ma guerre e diseguaglianze spesso ancora lo impediscono. Sempre più, segni di speranza diventano oggi le case-famiglia, le comunità per minori, i centri di ascolto e di accoglienza, le mense per i poveri, i dormitori, le scuole popolari: quanti segni spesso nascosti, ai quali forse non badiamo, eppure così importanti per scrollarsi di dosso l’indifferenza e provocare all’impegno nelle diverse forme di volontariato!
I poveri non sono un diversivo per la Chiesa, bensì i fratelli e le sorelle più amati, perché ognuno di loro, con la sua esistenza e anche con le parole e la sapienza di cui è portatore, provoca a toccare con mano la verità del Vangelo. Perciò la Giornata Mondiale dei Poveri intende ricordare alle nostre comunità che i poveri sono al centro dell’intera opera pastorale. Non solo del suo aspetto caritativo, ma ugualmente di ciò che la Chiesa celebra e annuncia. Dio ha assunto la loro povertà per renderci ricchi attraverso le loro voci, le loro storie, i loro volti. Tutte le forme di povertà, nessuna esclusa, sono una chiamata a vivere con concretezza il Vangelo e a offrire segni efficaci di speranza.
6. Questo è l’invito che giunge dalla celebrazione del Giubileo. Non è un caso che la Giornata Mondiale dei Poveri si celebri verso la fine di quest’anno di grazia. Quando la Porta Santa sarà chiusa, dovremo custodire e trasmettere i doni divini che sono stati riversati nelle nostre mani lungo un intero anno di preghiera, conversione e testimonianza. I poveri non sono oggetti della nostra pastorale, ma soggetti creativi che provocano a trovare sempre nuove forme per vivere oggi il Vangelo. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e rassegnarsi. Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte può accadere che siamo noi stessi ad avere meno, a perdere ciò che un tempo ci pareva sicuro: un’abitazione, il cibo adeguato per la giornata, l’accesso alle cure, un buon livello di istruzione e di informazione, la libertà religiosa e di espressione.
Promuovendo il bene comune, la nostra responsabilità sociale trae fondamento dal gesto creatore di Dio, che dà a tutti i beni della terra: come questi, così anche i frutti del lavoro dell’uomo devono essere equamente accessibili. Aiutare il povero è infatti questione di giustizia, prima che di carità. Come osserva Sant’Agostino: «Tu dai del pane a chi ha fame, ma sarebbe meglio che nessuno avesse fame, anche se in tal modo non si avrebbe nessuno cui dare. Tu offri dei vestiti a chi è nudo, ma quanto sarebbe meglio se tutti avessero i vestiti e non ci fosse questa indigenza» (Commento a 1Gv, VIII, 5).
Auspico dunque che quest’Anno Giubilare possa incentivare lo sviluppo di politiche di contrasto alle antiche e nuove forme di povertà, oltre a nuove iniziative di sostegno e aiuto ai più poveri tra i poveri. Lavoro, istruzione, casa, salute sono le condizioni di una sicurezza che non si affermerà mai con le armi. Mi congratulo per le iniziative già esistenti e per l’impegno che viene profuso ogni giorno a livello internazionale da un gran numero di uomini e donne di buona volontà.
Affidiamoci a Maria Santissima, Consolatrice degli afflitti, e con lei innalziamo un canto di speranza facendo nostre le parole del Te Deum: «In Te, Domine, speravi, non confundar in aeternum – In te, Signore, ho sperato, non sarò mai deluso».
Dal Vaticano, 13 Giugno 2025, memoria di Sant’Antonio di Padova, Patrono dei Poveri
LEONE PP. XIV
[00729-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
C’est Toi mon espérance (cf. Ps 71, 5)
1. « Seigneur mon Dieu, tu es mon espérance » (Ps 71, 5). Ces paroles jaillissent d'un cœur accablé par de graves difficultés : « Tu m'as fait voir tant de maux et de détresses » (v. 20), dit le psalmiste. Malgré cela, son âme est ouverte et confiante, car elle est ferme dans la foi, qui reconnaît le soutien de Dieu et le professe : « Ma forteresse et mon roc, c'est toi » (v. 3). De là jaillit la confiance inébranlable que l'espérance en Lui ne déçoit pas : « En toi, Seigneur, j'ai mon refuge : garde-moi d'être humilié pour toujours » (v. 1).
Dans les épreuves de la vie, l'espérance est animée par la certitude ferme et encourageante de l'amour de Dieu répandu dans les cœurs par l'Esprit Saint. C'est pourquoi elle ne déçoit pas (cf. Rm 5, 5) et saint Paul peut écrire à Timothée : « Si nous nous donnons de la peine et si nous combattons, c’est parce que nous avons mis notre espérance dans le Dieu vivant » (1 Tm 4, 10). Le Dieu vivant est en effet le « Dieu de l'espérance » (Rm 15, 13) qui dans Christ, par sa mort et sa résurrection, est devenu « notre espérance » (1 Tm 1, 1). Nous ne pouvons pas oublier que nous avons été sauvés dans cette espérance dans laquelle nous devons rester enracinés.
2. Le pauvre peut devenir témoin d'une espérance forte et fiable, justement parce qu'il la professe dans des conditions de vie précaires, faites de privations, de fragilité et d'exclusion. Il ne compte pas sur les certitudes du pouvoir et des biens ; au contraire, il les subit et en est souvent victime. Son espérance ne peut reposer qu'ailleurs. En reconnaissant que Dieu est notre première et unique espérance, nous accomplissons nous aussi le passage entre les espérances éphémères et l'espérance durable. Face au désir d'avoir Dieu comme compagnon de route, les richesses sont relativisées car découvrant le véritable trésor dont nous avons réellement besoin. Les paroles avec lesquelles le Seigneur Jésus exhortait ses disciples résonnent clairement et avec force : « Ne vous faites pas de trésors sur la terre, là où les mites et les vers les dévorent, où les voleurs percent les murs pour voler. Mais faites-vous des trésors dans le ciel, là où il n’y a pas de mites ni de vers qui dévorent, pas de voleurs qui percent les murs pour voler » (Mt 6, 19-20).
3. La plus grande pauvreté consiste à ne pas connaître Dieu. C'est ce que nous rappelait le Pape François lorsqu'il écrivait dans Evangelii gaudium : « La pire discrimination dont souffrent les pauvres est le manque d'attention spirituelle. L'immense majorité des pauvres ont une ouverture particulière à la foi ; ils ont besoin de Dieu et nous ne pouvons pas manquer de leur offrir son amitié, sa bénédiction, sa Parole, la célébration des sacrements et la proposition d'un chemin de croissance et de maturation dans la foi » (n° 200). Il y a là une conscience fondamentale et tout à fait originale de la manière de trouver en Dieu son trésor. L'apôtre Jean insiste en effet : « Si quelqu’un dit : « J’aime Dieu », alors qu’il a de la haine contre son frère, c’est un menteur. En effet, celui qui n’aime pas son frère, qu’il voit, est incapable d’aimer Dieu, qu’il ne voit pas » (1 Jn 4, 20).
C'est une règle de la foi et un secret de l'espérance : tous les biens de cette terre, les réalités matérielles, les plaisirs du monde, le bien-être économique, bien qu'importants, ne suffisent pas à rendre le cœur heureux. Les richesses sont souvent trompeuses et conduisent à des situations dramatiques de pauvreté, à commencer par celle de penser que l'on n'a pas besoin de Dieu et de mener sa vie indépendamment de Lui. Les paroles de saint Augustin me reviennent à l'esprit : « Que toute ton espérance soit en Dieu : sens que tu as besoin de Lui pour être comblé par Lui. Sans Lui, tout ce que tu auras ne servira qu'à te rendre encore plus vide » (Enarr. in Ps. 85,3).
4. L'espérance chrétienne à laquelle renvoie la Parole de Dieu est une certitude sur le chemin de la vie, car elle ne dépend pas de la force humaine, mais de la promesse de Dieu qui est toujours fidèle. C'est pourquoi, depuis les origines, les chrétiens ont voulu identifier l'espérance au symbole de l'ancre, qui offre stabilité et sécurité. L'espérance chrétienne est comme une ancre qui fixe notre cœur sur la promesse du Seigneur Jésus qui nous a sauvés par sa mort et sa résurrection et qui reviendra parmi nous. Cette espérance continue à indiquer comme véritable horizon de la vie les « cieux nouveaux » et la « terre nouvelle » (2 P 3, 13), où l'existence de toutes les créatures trouvera son sens authentique, car notre véritable patrie est dans les cieux (cf. Ph 3, 20).
La cité de Dieu nous engage donc pour les cités des hommes. Celles-ci doivent dès maintenant commencer à lui ressembler. L'espérance, soutenue par l'amour de Dieu répandu dans nos cœurs par l'Esprit Saint (cf. Rm 5, 5) transforme le cœur humain en terre féconde, où peut germer la charité pour la vie du monde. La Tradition de l'Église réaffirme constamment cette circularité entre les trois vertus théologales : la foi, l'espérance et la charité. L'espérance naît de la foi qui la nourrit et la soutient sur le fondement de la charité, qui est la mère de toutes les vertus. Et c'est de charité que nous avons besoin aujourd'hui, maintenant. Ce n'est pas une promesse mais une réalité vers laquelle nous regardons avec joie et responsabilité : elle nous engage et oriente nos décisions vers le bien commun. Celui qui manque de charité, en revanche, non seulement manque de foi et d'espérance, mais enlève l'espérance à son prochain.
5. L'invitation biblique à l'espérance comporte donc le devoir d'assumer sans tarder des responsabilités cohérentes dans l'histoire. En effet, la charité « représente le plus grand commandement social » (Catéchisme de l'Église catholique, 1889). La pauvreté a des causes structurelles qui doivent être affrontées et éliminées. Pendant ce temps, nous sommes tous appelés à créer de nouveaux signes d'espérance qui témoignent de la charité chrétienne, comme l'ont fait tant de saints et saintes à travers les âges. Les hôpitaux et les écoles, par exemple, sont des institutions créées pour accueillir les plus faibles et les plus marginaux. Ils devraient désormais faire partie des politiques publiques de chaque pays, mais les guerres et les inégalités l'empêchent encore souvent. De plus en plus, les foyers d'accueil, les communautés pour mineurs, les centres d'écoute et d'accueil, les cantines pour les pauvres, les dortoirs, les écoles populaires deviennent aujourd'hui des signes d’espérance : autant de signes souvent cachés auxquels nous ne prêtons peut-être pas attention mais qui sont pourtant si importants pour secouer l'indifférence et susciter l'engagement dans différentes formes de volontariat !
Les pauvres ne sont pas une distraction pour l'Église, ils sont nos frères et sœurs les plus aimés, car chacun d'eux, par son existence et aussi par les paroles et la sagesse dont il est porteur, nous invite à toucher du doigt la vérité de l'Évangile. C'est pourquoi la Journée mondiale des pauvres veut rappeler à nos communautés que les pauvres sont au centre de toute l'œuvre pastorale. Non seulement en son aspect charitable, mais également en ce que l'Église célèbre et annonce. Dieu a pris leur pauvreté pour nous rendre riches à travers leurs voix, leurs histoires, leurs visages. Toutes les formes de pauvreté, sans exception, sont un appel à vivre concrètement l'Évangile et à offrir des signes efficaces d'espérance.
6. Telle est l'invitation qui nous est faite par la célébration du Jubilé. Ce n'est pas un hasard si la Journée mondiale des pauvres est célébrée vers la fin de cette année de grâce. Lorsque la Porte Sainte sera fermée, nous devrons garder et transmettre les dons divins qui ont été déversés dans nos mains tout au long d'une année de prière, de conversion et de témoignage. Les pauvres ne sont pas des objets de notre pastorale, mais des sujets créatifs qui nous poussent à trouver toujours de nouvelles façons de vivre l'Évangile aujourd'hui. Face à la succession de nouvelles vagues d'appauvrissement, le risque est de s'habituer et de se résigner. Nous rencontrons chaque jour des personnes pauvres ou démunies et il arrive parfois que ce soit nous-mêmes qui ayons moins, qui perdions ce qui nous semblait autrefois sûr : un logement, une alimentation suffisante pour la journée, l'accès aux soins, un bon niveau d'éducation et d'information, la liberté religieuse et d'expression.
En promouvant le bien commun, notre responsabilité sociale trouve son fondement dans le geste créateur de Dieu, qui donne à tous les biens de la terre : comme ceux-ci, les fruits du travail de l'homme doivent également être accessibles à tous de manière équitable. Aider les pauvres est en effet une question de justice avant d'être une question de charité. Comme le fait remarquer saint Augustin : « Tu donnes du pain à celui qui a faim, mais il vaudrait mieux que personne n'ait faim, même si cela signifie qu'il n'y aurait personne à qui donner. Tu offres des vêtements à celui qui est nu, mais combien il serait préférable que tous aient des vêtements et qu'il n'y ait pas cette indigence » (Commentaire sur 1Jn, VIII, 5).
Je souhaite donc que cette Année jubilaire puisse encourager le développement de politiques de lutte contre les formes anciennes et nouvelles de pauvreté, ainsi que de nouvelles initiatives de soutien et d'aide aux plus pauvres parmi les pauvres. Le travail, l'éducation, le logement, la santé sont les conditions d'une sécurité qui ne s'affirmera jamais par les armes. Je me félicite des initiatives déjà existantes et de l'engagement quotidien au niveau international d'un grand nombre d'hommes et de femmes de bonne volonté.
Confions-nous à la Très Sainte Vierge Marie, Consolatrice des affligés, et avec elle, élevons un chant d'espérance en faisant nôtres les paroles du Te Deum : «In Te, Domine, speravi, non confundar in aeternum – En toi, Seigneur, j'ai espéré, je ne serai jamais confondu »
Du Vatican, le 13 juin 2025, mémoire de saint Antoine de Padoue, Patron des pauvres
LEO PP. XIV
[00729-FR.01] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
You are my hope (cf. Ps 71:5)
1. “You, O Lord, are my hope” (Ps 71:5). These words well up from a heart burdened by grave hardship: “You have made me see many troubles and calamities” (v. 20), the Psalmist exclaims. At the same time, his heart remains open and confident; steadfast in faith, he acknowledges the support of God, whom he calls “a rock of refuge, a strong fortress” (v. 3). Hence, his abiding trust that hope in God never disappoints: “In you, Lord, I take refuge; I shall never be put to shame” (v. 1).
Amid life’s trials, our hope is inspired by the firm and reassuring certainty of God’s love, poured into our hearts by the Holy Spirit. That hope does not disappoint (cf. Rom 5:5). Thus Saint Paul could write to Timothy: “To this end we toil and struggle, because we have our hope set on the living God” (1 Tim 4:10). The living God is in fact “the God of hope” (Rom 15:13), and Christ, by his death and resurrection, has himself become “our hope” (1 Tim 1:1). We must never forget that we were saved in this hope, and need to remain firmly rooted therein.
2. The poor can be witnesses to a strong and steadfast hope, precisely because they embody it in the midst of uncertainty, poverty, instability and marginalization. They cannot rely on the security of power and possessions; on the contrary, they are at their mercy and often victims of them. Their hope must necessarily be sought elsewhere. By recognizing that God is our first and only hope, we too pass from fleeting hopes to a lasting hope. Once we desire that God accompany us on the journey of life, material wealth becomes relativized, for we discover the real treasure that we need. The words that the Lord Jesus spoke to his disciples remain forceful and clear: “Do not store up for yourselves treasures on earth, where moth and rust consume and where thieves break in and steal; but store up for yourselves treasures in heaven, where neither moth nor rust consume and where thieves do not break in and steal” (Mt 6:19-20).
3. The gravest form of poverty is not to know God. As Pope Francis wrote in Evangelii Gaudium: “The worst discrimination which the poor suffer is the lack of spiritual care. The great majority of the poor have a special openness to the faith; they need God and we must not fail to offer them his friendship, his blessing, his word, the celebration of the sacraments and a journey of growth and maturity in the faith” (No. 2000). Here we see a basic and essential awareness of how we can find our treasure in God. As the Apostle John insists: “If anyone says, ‘I love God,’ but hates his brother, he is a liar; for whoever does not love his brother whom he has seen cannot love God whom he has not seen” (1 Jn 4:20).
This is a rule of faith and the secret of hope: all this earth’s goods, material realities, worldly pleasures, economic prosperity, however important, cannot bring happiness to our hearts. Wealth often disappoints and can lead to tragic situations of poverty — above all the poverty born of the failure to recognize our need for God and of the attempt to live without him. A saying of Saint Augustine comes to mind: “Let all your hope be in God: feel your need for him, and let him fill that need. Without him, whatever you possess will only make you all the more empty” (Enarr. in Ps., 85:3).
4. The word of God tells us that Christian hope is certainty at every step of life’s journey, since it does not depend not on our human strength but upon the promise of God, who is always faithful. For this reason, from the beginning, Christians have identified hope with the symbol of the anchor, which provides stability and security. Christian hope is like an anchor that grounds our hearts in the promise of the Lord Jesus, who saved us by his death and resurrection and will come again among us. This hope continues to point us toward the “new heavens” and the “new earth” (2 Pet 3:13) as the true horizon of our existence, where every life will find its authentic meaning, for our real homeland is in heaven (cf. Phil 3:20).
The city of God, therefore, impels us to improve the cities of men and women. Our own cities must begin to resemble his. Hope, sustained by God’s love poured into our hearts through the Holy Spirit (cf. Rom 5:5), turns human hearts into fertile soil where charity for the life of the world can blossom. The Church’s tradition has constantly insisted on the circular relationship between the three theological virtues of faith, hope and charity. Hope is born of faith, which nourishes and sustains it on the foundation of charity, the mother of all virtues. All of us need charity, here and now. Charity is not just a promise; it is a present reality to be embraced with joy and responsibility. Charity engages us and guides our decisions towards the common good. Conversely, those who lack charity not only lack faith and hope; they also rob their neighbors of hope.
5. The biblical summons to hope thus entails the duty to shoulder our responsibilities in history, without hesitation. Charity, in fact, “is the greatest social commandment” (Catechism of the Catholic Church, No. 1889). Poverty has structural causes that must be addressed and eliminated. In the meantime, each of us is called to offer new signs of hope that will bear witness to Christian charity, just as many saints have done over the centuries. Hospitals and schools, for instance, were institutions established to reach out to the most vulnerable and marginalized. These institutions should be a part of every country’s public policy, yet wars and inequalities often prevent this from happening. Today, signs of hope are increasingly found in care homes, communities for minors, centers for listening and acceptance, soup kitchens, homeless shelters and low-income schools. How many of these quiet signs of hope often go unnoticed and yet are so important for setting aside our indifference and inspiring others to become involved in various forms of volunteer work!
The poor are not a distraction for the Church, but our beloved brothers and sisters, for by their lives, their words and their wisdom, they put us in contact with the truth of the Gospel. The celebration of the World Day of the Poor is meant to remind our communities that the poor are at the heart of all our pastoral activity. This is true not only of the Church’s charitable work, but also of the message that she celebrates and proclaims. God took on their poverty in order to enrich us through their voices, their stories and their faces. Every form of poverty, without exception, calls us to experience the Gospel concretely and to offer effective signs of hope.
6. This, then, is the invitation extended to us by this Jubilee celebration. It is no coincidence that the World Day of the Poor is celebrated towards the end of this year of grace. Once the Holy Door is closed, we are to cherish and share with others the divine gifts granted us throughout this entire year of prayer, conversion and witness. The poor are not recipients of our pastoral care, but creative subjects who challenge us to find novel ways of living out the Gospel today. In the face of new forms of impoverishment, we can risk becoming hardened and resigned. Each day we encounter poor or impoverished people. We too may have less than before and are losing what once seemed secure: a home, sufficient food for each day, access to healthcare and a good education, information, religious freedom and freedom of expression.
In this promotion of the common good, our social responsibility is grounded in God’s creative act, which gives everyone a share in the goods of the earth. Like those goods, the fruits of human labor should be equally accessible to all. Helping the poor is a matter of justice before a question of charity. As Saint Augustine observed: “You give bread to a hungry person; but it would be better if none were hungry, so that you would have no need to give it away. You clothe the naked, but would that all were clothed and that there be no need for supply this lack” (In I Ioan., 8:5).
It is my hope, then, that this Jubilee Year will encourage the development of policies aimed at combatting forms of poverty both old and new, as well as implementing new initiatives to support and assist the poorest of the poor. Labor, education, housing and health are the foundations of a security that will never be attained by the use of arms. I express my appreciation for those initiatives that already exist, and for the efforts demonstrated daily on the international level by great numbers of men and women of good will.
Let us entrust ourselves to Mary Most Holy, Comforter of the Afflicted and, with her, let us raise a song of hope as we make our own the words of the Te Deum: “In you, O Lord, is our hope, and we shall never hope in vain.”
From the Vatican, 13 June 2025, Memorial of Saint Anthony of Padua, Patron Saint of the Poor
LEO PP. XIV
[00729-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Du bist meine Hoffnung (Ps 71,5)
1. »Du bist meine Hoffnung, Herr und Gott« (Ps 71,5). Diese Worte kommen aus einem von ernsten Schwierigkeiten bedrängten Herzen: »Du ließest mich viel Angst und Not erfahren« (V. 20), sagt der Psalmist. Dennoch ist seine Seele aufgeschlossen und zuversichtlich, weil er fest im Glauben verankert ist, der den Beistand Gottes erkennt und bekennt: »Du bist mein Fels und meine Festung« (V. 3). Daraus geht das unerschütterliche Vertrauen hervor, dass die Hoffnung auf ihn nicht enttäuscht: »Bei dir, o Herr, habe ich mich geborgen, lass mich nicht zuschanden werden in Ewigkeit« (V. 1).
Inmitten der Prüfungen des Lebens wird die Hoffnung durch die feste und ermutigende Gewissheit der Liebe Gottes belebt, die durch den Heiligen Geist in unsere Herzen ausgegossen ist. Deswegen enttäuscht sie nicht (vgl. Röm 5,5) und der heilige Paulus kann an Timotheus schreiben: »Dafür arbeiten und kämpfen wir, denn wir haben unsere Hoffnung auf den lebendigen Gott gesetzt« (1 Tim 4,10). Der lebendige Gott ist in der Tat der »Gott der Hoffnung« (Röm 15,13), der in Christus durch seinen Tod und seine Auferstehung zu »unserer Hoffnung« geworden ist (1 Tim 1,1). Wir dürfen nicht vergessen, dass wir in dieser Hoffnung gerettet worden sind. Und in ihr müssen wir auch verwurzelt bleiben.
2. Der Arme kann zum Zeugen einer starken und verlässlichen Hoffnung werden, gerade weil er sie in einer prekären Lebenssituation bekundet, die von Entbehrungen, Gebrechlichkeit und Ausgrenzung geprägt ist. Er verlässt sich nicht auf die Sicherheiten von Macht und Besitz, er leidet vielmehr unter ihnen und ist oft ihr Opfer. Seine Hoffnung kann nur anderswo ruhen. Indem wir erkennen, dass Gott unsere erste und einzige Hoffnung ist, vollziehen auch wir den Übergang von vergänglichen Hoffnungen zur dauerhaften Hoffnung. Und in Anbetracht des Wunsches, Gott als Wegbegleiter zu haben, werden Reichtümer relativiert, weil wir den wahren Schatz entdecken, den wir wirklich brauchen. Die Worte, mit denen Jesus seine Jünger ermahnt hat, sind klar und deutlich: »Sammelt euch nicht Schätze hier auf der Erde, wo Motte und Wurm sie zerstören und wo Diebe einbrechen und sie stehlen, sondern sammelt euch Schätze im Himmel, wo weder Motte noch Wurm sie zerstören und keine Diebe einbrechen und sie stehlen« (Mt 6,19-20).
3. Die schlimmste Armut ist, Gott nicht zu kennen. Daran erinnerte uns Papst Franziskus, als er in Evangelii gaudium schrieb: »Die schlimmste Diskriminierung, unter der die Armen leiden, ist der Mangel an geistlicher Zuwendung. Die riesige Mehrheit der Armen ist besonders offen für den Glauben; sie brauchen Gott und wir dürfen es nicht unterlassen, ihnen seine Freundschaft, seinen Segen, sein Wort, die Feier der Sakramente anzubieten und ihnen einen Weg des Wachstums und der Reifung im Glauben aufzuzeigen« (Nr. 200). Hier findet sich ein grundlegendes und ganz ursprüngliches Bewusstsein dafür, wie man in Gott seinen Schatz findet. Der Apostel Johannes betont nämlich: »Wenn jemand sagt: Ich liebe Gott!, aber seinen Bruder hasst, ist er ein Lügner. Denn wer seinen Bruder nicht liebt, den er sieht, kann Gott nicht lieben, den er nicht sieht« (1 Joh 4,20).
Es ist eine Regel des Glaubens und ein Geheimnis der Hoffnung: Alle Güter dieser Erde, die materiellen Dinge, die Freuden der Welt, das wirtschaftliche Wohlergehen, so wichtig sie auch sein mögen, genügen nicht, um das Herz glücklich werden zu lassen. Reichtümer täuschen oft und führen zu dramatischen Situationen der Armut: vor allen, wenn man meint, Gott nicht zu brauchen und das eigene Leben unabhängig von ihm zu führen. Es kommen einem die Worte des heiligen Augustinus in den Sinn: »Setze deine ganze Hoffnung auf Gott: Fühle dich bedürftig nach ihm, um von ihm erfüllt zu werden. Ohne ihn wird dich alles, worüber du verfügst, nur noch leerer machen« (Enarr. in Ps. 85,3).
4. Die christliche Hoffnung, auf die das Wort Gottes verweist, ist eine Gewissheit auf dem Lebensweg, weil sie nicht von menschlicher Kraft abhängt, sondern vom Versprechen Gottes, der immer treu ist. Deshalb haben die Christen von Anfang an die Hoffnung mit dem Symbol des Ankers verbunden, der Stabilität und Sicherheit bietet. Die christliche Hoffnung ist wie ein Anker, der unser Herz an dem Versprechen Jesu festmacht, der uns durch seinen Tod und seine Auferstehung gerettet hat und wieder zu uns zurückkehren wird. Diese Hoffnung weist beständig auf den »neuen Himmel« und die »neue Erde« (2 Petr 3,13) als wahren Horizont des Lebens hin, wo das Dasein aller Geschöpfe seinen wirklichen Sinn finden wird, da unsere wahre Heimat im Himmel ist (vgl. Phil 3,20).
Daraus folgt, dass die Stadt Gottes uns für die Städte der Menschen in die Pflicht nimmt. Sie müssen bereits jetzt anfangen, ihr zu ähneln. Die Hoffnung, die von der Liebe Gottes getragen wird, die durch den Heiligen Geist in unsere Herzen ausgegossen worden ist (vgl. Röm 5,5), verwandelt das menschliche Herz in fruchtbaren Boden, auf dem die Liebe zum Leben der Welt gedeihen kann. Die Tradition der Kirche bekräftigt immer wieder diese Wechselbeziehung zwischen den drei theologischen Tugenden: Glaube, Hoffnung und Liebe. Die Hoffnung erwächst aus dem Glauben, der sie nährt und trägt, und zwar auf dem Fundament der Liebe, die die Mutter aller Tugenden ist. Und die Liebe ist das, was wir heute, was wir jetzt brauchen. Sie ist kein Versprechen, sondern eine Wirklichkeit, auf die wir mit Freude und Verantwortung blicken: Sie bezieht uns mit ein und richtet unsere Entscheidungen auf das Gemeinwohl aus. Wem es hingegen an Liebe mangelt, dem fehlt nicht nur der Glaube und die Hoffnung, sondern der nimmt seinem Nächsten die Hoffnung.
5. Die biblische Aufforderung zur Hoffnung geht also mit der Pflicht einher, in der Geschichte die dementsprechende Verantwortung zu übernehmen, und zwar ohne zu zögern. Denn »die Liebe ist das größte soziale Gebot« (Katechismus der Katholischen Kirche, 1889). Armut hat strukturelle Ursachen, die angegangen und beseitigt werden müssen. Während dies geschieht, sind wir alle aufgerufen, neue Zeichen der Hoffnung zu schaffen, die von der christlichen Liebe zeugen, so wie es viele Heilige zu allen Zeiten getan haben. Krankenhäuser und Schulen zum Beispiel sind Einrichtungen, die geschaffen wurden, um die Unterstützung für die Schwächsten und Ausgegrenzten zum Ausdruck zu bringen. Sie sollten mittlerweile Teil der staatlichen Politik eines jeden Landes sein, doch Kriege und Ungleichheiten verhindern dies oft noch. Zu Zeichen der Hoffnung werden heute immer mehr Familien-Häuser, Wohngruppen für Minderjährige, Zentren des Zuhörens und der Aufnahme, Tafeln für Arme, Schlafsäle, Bildungsmöglichkeiten für alle: Dies sind viele Beispiele, oft versteckt, auf die wir vielleicht nicht achten, die aber so wichtig sind, um die Gleichgültigkeit abzuschütteln und zum Engagement in den verschiedenen Freiwilligendiensten anzuregen!
Die Armen sind keine Zusatzbeschäftigung für die Kirche, sondern vielmehr die am meisten geliebten Brüder und Schwestern, weil jeder von ihnen durch sein Leben und auch durch die Worte und die Weisheit, deren Träger er ist, dazu anregt, mit der Wahrheit des Evangeliums konkret in Berührung zu kommen. Deshalb will der Welttag der Armen unsere Gemeinschaften daran erinnern, dass die Armen im Mittelpunkt der gesamten Pastoral stehen. Nicht nur was ihren karitativen Aspekt betrifft, sondern auch hinsichtlich dessen, was die Kirche feiert und verkündet. Gott hat ihre Armut angenommen, um uns durch ihre Stimmen, ihre Geschichten und ihre Gesichter reich zu machen. Ausnahmslos alle Formen der Armut sind ein Aufruf, das Evangelium konkret zu leben und wirksame Zeichen der Hoffnung zu geben.
6. Dies ist die Einladung, die von der Feier des Heiligen Jahres ausgeht. Es ist kein Zufall, dass der Welttag der Armen gegen Ende dieses Gnadenjahres begangen wird. Wenn die Heilige Pforte geschlossen sein wird, dann werden wir die göttlichen Gaben, die im Laufe eines ganzen Jahres des Gebets, der Bekehrung und des Zeugnisses in unsere Hände gelegt wurden, hüten und weitergeben müssen. Die Armen sind keine Objekte unserer pastoralen Fürsorge, sondern kreative Subjekte, die uns herausfordern, immer neue Wege zu finden, das Evangelium heute zu leben. Angesichts immer neuer Wellen der Verarmung besteht die Gefahr, dass wir uns daran gewöhnen und resignieren. Wir begegnen jeden Tag armen oder verarmten Menschen und manchmal kann es passieren, dass wir selbst weniger haben, dass wir das verlieren, was uns einst sicher zu sein schien: eine Wohnung, ausreichend Nahrung für den Tag, Zugang zur Gesundheitsversorgung, ein gutes Bildungs- und Informationsniveau, Religions- und Meinungsfreiheit.
Wenn wir das Gemeinwohl fördern, gründet unsere soziale Verantwortung auf der schöpferischen Geste Gottes, der die Güter der Erde allen schenkt: Wie diese müssen auch die Früchte der menschlichen Arbeit allen gleichermaßen zugänglich sein. Den Armen zu helfen ist in der Tat eine Frage der Gerechtigkeit, noch bevor es eine Frage der Nächstenliebe ist. Wie der heilige Augustinus sagt: »Du gibst dem Hungrigen Brot, aber es wäre besser, niemand hätte Hunger, auch wenn dann niemand mehr da wäre, dem du geben könntest. Du gibst dem Nackten Kleidung, aber wie viel besser wäre es, wenn alle Kleidung hätten und es keine Not gäbe« (Kommentar zu 1 Joh, VIII, 5).
Ich hoffe daher, dass dieses Heilige Jahr zur Entwicklung von Maßnahmen zur Bekämpfung alter und neuer Formen der Armut sowie zu neuen Initiativen zur Unterstützung und Hilfe für die Ärmsten der Armen beitragen kann. Arbeit, Bildung, Wohnung und Gesundheit sind Voraussetzungen für eine Sicherheit, die wir niemals mit Waffen erreichen können. Ich begrüße die Initiativen, die es bereits gibt, und die Anstrengungen, die tagtäglich auf internationaler Ebene von einer großen Zahl von Männern und Frauen guten Willens unternommen werden.
Vertrauen wir uns der allerseligsten Jungfrau Maria an, der Trösterin der Betrübten, und stimmen wir zusammen mit ihr ein Lied der Hoffnung an, indem wir uns die Worte des Te Deum zu eigen machen: »In Te, Domine, speravi, non confundar in aeternum – Auf dich, o Herr, habe ich meine Hoffnung gesetzt. In Ewigkeit werde ich nicht zuschanden«.
Aus dem Vatikan, am 13. Juni 2025, dem Gedenktag des heiligen Antonius von Padua, des Patrons der Armen
LEO PP. XIV.
[00729-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Tú, Señor, eres mi esperanza (cfr Sal 71,5)
1. «Tú, Señor, eres mi esperanza» (Sal 71,5). Estas palabras brotan de un corazón oprimido por graves dificultades: «Me hiciste pasar por muchas angustias» (v. 20), dice el salmista. A pesar de ello, su alma está abierta y confiada, porque permanece firme en la fe, que reconoce el apoyo de Dios y lo proclama: «Tú eres mi Roca y mi fortaleza» (v. 3). De ahí nace la confianza indefectible de que la esperanza en Él no defrauda: «Yo me refugio en ti, Señor, ¡que nunca tenga que avergonzarme!» (v. 1).
En medio de las pruebas de la vida, la esperanza se anima con la certeza firme y alentadora del amor de Dios, derramado en los corazones por el Espíritu Santo. Por eso no defrauda (cf. Rm 5,5), y san Pablo puede escribir a Timoteo: «Nosotros nos fatigamos y luchamos porque hemos puesto nuestra esperanza en el Dios viviente» (1Tm 4,10). El Dios viviente es, de hecho, el «Dios de la esperanza» (Rm 15,13), que, en Cristo, mediante su muerte y resurrección, se ha convertido en «nuestra esperanza» (1Tm 1,1). No podemos olvidar que hemos sido salvados en esta esperanza, en la que necesitamos permanecer enraizados.
2. El pobre puede convertirse en testigo de una esperanza fuerte y fiable, precisamente porque la profesa en una condición de vida precaria, marcada por privaciones, fragilidad y marginación. No confía en las seguridades del poder o del tener; al contrario, las sufre y con frecuencia es víctima de ellas. Su esperanza sólo puede reposar en otro lugar. Reconociendo que Dios es nuestra primera y única esperanza, nosotros también realizamos el paso de las esperanzas efímeras a la esperanza duradera. Frente al deseo de tener a Dios como compañero de camino, las riquezas se relativizan, porque se descubre el verdadero tesoro del que realmente tenemos necesidad. Resuenan claras y fuertes las palabras con las que el Señor Jesús exhortaba a sus discípulos: «No acumulen tesoros en la tierra, donde la polilla y la herrumbre los consumen, y los ladrones perforan las paredes y los roban. Acumulen, en cambio, tesoros en el cielo, donde no hay polilla ni herrumbre que los consuma, ni ladrones que perforen y roben» (Mt 6,19-20).
3. La pobreza más grave es no conocer a Dios. Así nos lo recordaba el Papa Francisco cuando en Evangelii gaudium escribía: «La peor discriminación que sufren los pobres es la falta de atención espiritual. La inmensa mayoría de los pobres tiene una especial apertura a la fe; necesitan a Dios y no podemos dejar de ofrecerles su amistad, su bendición, su Palabra, la celebración de los Sacramentos y la propuesta de un camino de crecimiento y de maduración en la fe» (n. 200). Aquí se manifiesta una conciencia fundamental y totalmente original sobre cómo encontrar en Dios el propio tesoro. Insiste, en efecto, el apóstol Juan: «El que dice: “Amo a Dios”, y no ama a su hermano, es un mentiroso. ¿Cómo puede amar a Dios, a quien no ve, el que no ama a su hermano, a quien ve?» (1Jn 4,20).
Es una regla de la fe y un secreto de la esperanza que todos los bienes de esta tierra, las realidades materiales, los placeres del mundo, el bienestar económico, aunque importantes, no bastan para hacer feliz al corazón. Las riquezas muchas veces engañan y conducen a situaciones dramáticas de pobreza, la más grave de todas es pensar que no necesitamos a Dios y que podemos llevar adelante la propia vida independientemente de Él. Vuelven a la mente las palabras de san Agustín: «Sea Dios toda tu presunción: siéntete indigente de Él, y así serás de Él colmado. Todo lo que poseas sin Él, te causará un mayor vacío.» (Enarr. in Ps. 85,3).
4. La esperanza cristiana, a la que remite la Palabra de Dios, es certeza en el camino de la vida, porque no depende de la fuerza humana sino de la promesa de Dios, que es siempre fiel. Por eso, los cristianos desde los orígenes quisieron identificar la esperanza con el símbolo del ancla, que da estabilidad y seguridad. La esperanza cristiana es como un ancla que fija nuestro corazón en la promesa del Señor Jesús, quien nos ha salvado con su muerte y resurrección y que volverá de nuevo en medio de nosotros. Esta esperanza sigue señalando como verdadero horizonte de vida el «cielo nuevo» y la «tierra nueva» (2P 3,13) donde la existencia de todas las criaturas encontrará su sentido auténtico, pues nuestra verdadera patria está en el cielo (cf. Flp 3,20).
La ciudad de Dios, en consecuencia, nos compromete con las ciudades de los hombres. Estas deben, desde ahora, comenzar a parecerse a ella. La esperanza, sostenida por el amor de Dios derramado en nuestros corazones por medio del Espíritu Santo (cf. Rm 5,5 transforma el corazón humano en tierra fértil, donde puede brotar la caridad para la vida del mundo. La Tradición de la Iglesia reafirma constantemente esta circularidad entre las tres virtudes teologales: fe, esperanza y caridad. La esperanza nace de la fe, que la alimenta y sostiene, sobre el fundamento de la caridad, que es madre de todas las virtudes. Y de la caridad tenemos necesidad hoy, ahora. No es una promesa, sino una realidad a la que miramos con alegría y responsabilidad: nos compromete, orientando nuestras decisiones al bien común. Quien carece de caridad no solo carece de fe y esperanza, sino que quita esperanza a su prójimo.
5. La invitación bíblica a la esperanza conlleva, por tanto, el deber de asumir responsabilidades coherentes en la historia, sin dilaciones. La caridad, en efecto, «representa el mayor mandamiento social» (Catecismo de la Iglesia Católica, 1889). La pobreza tiene causas estructurales que deben ser afrontadas y eliminadas. Mientras esto sucede, todos estamos llamados a crear nuevos signos de esperanza que testimonien la caridad cristiana, como lo hicieron muchos santos y santas de todas las épocas. Los hospitales y las escuelas, por ejemplo, son instituciones creadas para expresar la acogida hacia los más débiles y marginados. Hoy deberían formar parte ya de las políticas públicas de todo país, pero las guerras y desigualdades con frecuencia lo impiden. Cada vez más, los signos de esperanza son hoy las casas-familia, las comunidades para menores, los centros de escucha y acogida, los comedores para los pobres, los albergues, las escuelas populares: cuántos signos, a menudo escondidos, a los que quizás no prestamos atención y, sin embargo, tan importantes para sacudirnos de la indiferencia y motivar el compromiso en las distintas formas de voluntariado.
Los pobres no son una distracción para la Iglesia, sino los hermanos y hermanas más amados, porque cada uno de ellos, con su existencia, e incluso con sus palabras y la sabiduría que poseen, nos provoca a tocar con las manos la verdad del Evangelio. Por eso, la Jornada Mundial de los Pobres quiere recordar a nuestras comunidades que los pobres están en el centro de toda la acción pastoral. No solo de su dimensión caritativa, sino también de lo que la Iglesia celebra y anuncia. Dios ha asumido su pobreza para enriquecernos a través de sus voces, sus historias, sus rostros. Toda forma de pobreza, sin excluir ninguna, es un llamado a vivir concretamente el Evangelio y a ofrecer signos eficaces de esperanza.
6. Esta es la invitación que nos llega de la celebración del Jubileo. No es casualidad que la Jornada Mundial de los Pobres se celebre hacia el final de este año de gracia. Cuando se cierre la Puerta Santa, tendremos que custodiar y transmitir los dones divinos que han sido derramados en nuestras manos a lo largo de todo un año de oración, conversión y testimonio. Los pobres no son objetos de nuestra pastoral, sino sujetos creativos que nos estimulan a encontrar siempre formas nuevas de vivir el Evangelio hoy. Ante la sucesión de nuevas oleadas de empobrecimiento, existe el riesgo de acostumbrarse y resignarse. Todos los días nos encontramos con personas pobres o empobrecidas y, a veces, puede suceder que seamos nosotros mismos los que tengamos menos, los que perdamos lo que antes nos parecía seguro: una vivienda, comida adecuada para el día, acceso a la atención médica, un buen nivel de educación e información, libertad religiosa y de expresión.
Al promover el bien común, nuestra responsabilidad social se basa en el gesto creador de Dios, que a todos da los bienes de la tierra; y al igual que estos, también los frutos del trabajo del hombre deben ser accesibles de manera equitativa. Ayudar al pobre es, en efecto, una cuestión de justicia, antes que de caridad. Como observa San Agustín: «Das pan al hambriento, pero sería mejor que nadie sintiese hambre y no tuvieses a nadie a quien dar. Vistes al desnudo, pero ¡ojalá todos estuviesen vestidos y no hubiese necesidad de vestir a nadie!» (Homilías sobre la primera carta de san Juan a los partos, VIII, 5).
Espero, por tanto, que este Año Jubilar pueda impulsar el desarrollo de políticas para combatir antiguas y nuevas formas de pobreza, además de nuevas iniciativas de apoyo y ayuda a los más pobres entre los pobres. El trabajo, la educación, la vivienda y la salud son las condiciones para una seguridad que nunca se logrará con las armas. Estoy contento por las iniciativas ya existentes y por el compromiso que cada día asumen a nivel internacional un gran número de hombres y mujeres de buena voluntad.
Confiemos en María Santísima, Consuelo de los afligidos, y con ella entonemos un canto de esperanza haciendo nuestras las palabras del Te Deum: «In Te, Domine, speravi, non confundar in aeternum —En ti, Señor, confié, no me veré defraudado para siempre».
Vaticano, 13 de junio de 2025, memoria de San Antonio de Padua, Patrono de los Pobres
LEÓN PP. XIV
[00729-ES.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Tu és a minha esperança (cf. Sl 71,5)
1. «Tu és a minha esperança, ó Senhor Deus» (Sl 71,5). Essas palavras emanam de um coração oprimido por graves dificuldades: «Fizeste-me sofrer grandes males e aflições mortais» (v. 20), diz o Salmista. Apesar disso, o seu espírito está aberto e confiante, porque firme na fé reconhece o amparo de Deus e o professa: «És o meu rochedo e a minha fortaleza» (v. 3). Daí deriva a confiança inabalável de que a esperança n’Ele não decepciona: «Em ti, Senhor, me refugio, jamais serei confundido» (v. 1).
No meio das provações da vida, a esperança é animada pela firme e encorajadora certeza do amor de Deus, derramado nos corações pelo Espírito Santo. Por isso, ela não decepciona (cf. Rm 5, 5) e São Paulo pode escrever a Timóteo: «Pois se nós trabalhamos e lutamos, é porque pomos a nossa esperança no Deus vivo» (1 Tm 4, 10). O Deus vivo é, verdadeiramente, o «Deus da esperança» (Rm 15, 13), que em Cristo, pela sua morte e ressurreição, se tornou a «nossa esperança» (1 Tm 1, 1). Não podemos esquecer que fomos salvos nesta esperança, na qual precisamos permanecer enraizados.
2. O pobre pode tornar-se testemunha de uma esperança forte e confiável, precisamente porque professada numa condição de vida precária, feita de privações, fragilidade e marginalização. Ele não conta com as seguranças do poder e do ter; pelo contrário, sofre-as e, muitas vezes, é vítima delas. A sua esperança só pode repousar noutro lugar. Reconhecendo que Deus é a nossa primeira e única esperança, também nós fazemos a passagem entre as esperanças que passam e a esperança que permanece. As riquezas são relativizadas perante o desejo de ter Deus como companheiro de caminho porque se descobre o verdadeiro tesouro de que realmente precisamos. Ressoam claras e fortes as palavras com que o Senhor Jesus exortou os seus discípulos: «Não acumuleis tesouros na terra, onde a traça e a ferrugem os corroem e os ladrões arrombam os muros, a fim de os roubar. Acumulai tesouros no Céu, onde a traça e a ferrugem não corroem e onde os ladrões não arrombam nem furtam» (Mt 6, 19-20).
3. A pobreza mais grave é não conhecer a Deus. Recordou-nos isso o Papa Francisco quando escreveu na Evangelii gaudium: «A pior discriminação que sofrem os pobres é a falta de cuidado espiritual. A imensa maioria dos pobres possui uma especial abertura à fé; tem necessidade de Deus e não podemos deixar de lhe oferecer a sua amizade, a sua bênção, a sua Palavra, a celebração dos Sacramentos e a proposta dum caminho de crescimento e amadurecimento na fé» (n. 200). Há aqui uma consciência fundamental e totalmente original sobre como encontrar em Deus o próprio tesouro. Realmente, insiste o apóstolo João: «Se alguém disser: “Eu amo a Deus”, mas tiver ódio ao seu irmão, esse é um mentiroso; pois aquele que não ama o seu irmão, a quem vê, não pode amar a Deus, a quem não vê» (1 Jo 4, 20).
É uma regra da fé e um segredo da esperança: embora importantes, todos os bens desta terra, as realidades materiais, os prazeres do mundo ou o bem-estar económico não são suficientes para fazer o coração feliz. Frequentemente, as riquezas iludem e conduzem a situações dramáticas de pobreza, sendo a primeira dessas ilusões pensar que não precisamos de Deus e conduzir a nossa vida independentemente d’Ele. Vêm-me à mente as palavras de Santo Agostinho: «Seja Deus todo motivo de presumires. Sente necessidade d’Ele para que Ele te cumule. Tudo o que possuíres fora d’Ele é imensamente vazio» (Enarr. in Ps. 85,3).
4. A esperança cristã, à qual a Palavra de Deus remete, é certeza no caminho da vida, porque não depende da força humana, mas da promessa de Deus, que é sempre fiel. Por isso, desde os primórdios, os cristãos quiseram identificar a esperança com o símbolo da âncora, que oferece estabilidade e segurança. A esperança cristã é como uma âncora, que fixa o nosso coração na promessa do Senhor Jesus, que nos salvou com a sua morte e ressurreição e que retornará novamente no meio de nós. Esta esperança continua a indicar como verdadeiro horizonte da vida os «novos céus» e a «nova terra» (2 Pe 3, 13), onde a existência de todas as criaturas encontrará o seu sentido autêntico, visto que a nossa verdadeira pátria está nos céus (cf. Fl 3, 20).
Consequentemente, a cidade de Deus compromete-nos com as cidades dos homens, que, desde agora, devem começar a assemelhar-se àquela. A esperança, sustentada pelo amor de Deus derramado nos nossos corações pelo Espírito Santo (cf. Rm 5, 5), transforma o coração humano em terra fértil, onde pode germinar a caridade para a vida do mundo. A Tradição da Igreja reafirma constantemente esta circularidade entre as três virtudes teologais: fé, esperança e caridade. A esperança nasce da fé, que a alimenta e sustenta, sobre o fundamento da caridade, que é a mãe de todas as virtudes. E precisamos de caridade hoje, agora. Não é uma promessa, mas uma realidade para a qual olhamos com alegria e responsabilidade: envolve-nos, orientando as nossas decisões para o bem comum. Em vez disso, quem carece de caridade não só carece de fé e esperança, mas tira a esperança ao seu próximo.
5. O convite bíblico à esperança traz consigo o dever de assumir, sem demora, responsabilidades coerentes na história. Com efeito, a caridade é «o maior mandamento social» (Catecismo da Igreja Católica, 1889). A pobreza tem causas estruturais que devem ser enfrentadas e eliminadas. À medida que isso acontece, todos somos chamados a criar novos sinais de esperança que testemunhem a caridade cristã, como fizeram, em todas as épocas, muitos santos e santas. Os hospitais e as escolas, por exemplo, são instituições criadas para expressar o acolhimento aos mais fracos e marginalizados. Eles deveriam fazer parte das políticas públicas de todos os países, mas as guerras e as desigualdades frequentemente ainda o impedem. Hoje, cada vez mais, as casas-família, as comunidades para menores, os centros de acolhimento e escuta, as refeições para os pobres, os dormitórios e as escolas populares tornam-se sinais de esperança: são tantos sinais, muitas vezes ocultos, aos quais talvez não prestemos atenção, mas que são muito importantes para se desvencilhar da indiferença e provocar o empenho nas diversas formas de voluntariado!
Os pobres não são um passatempo para a Igreja, mas sim os irmãos e irmãs mais amados, porque cada um deles, com a sua existência e também com as palavras e a sabedoria que trazem consigo, levam-nos a tocar com as mãos a verdade do Evangelho. Por isso, o Dia Mundial dos Pobres pretende recordar às nossas comunidades que os pobres estão no centro de toda a ação pastoral. Não só na sua dimensão caritativa, mas igualmente naquilo que a Igreja celebra e anuncia. Através das suas vozes, das suas histórias, dos seus rostos, Deus assumiu a sua pobreza para nos tornar ricos. Todas as formas de pobreza, sem excluir nenhuma, são um apelo a viver concretamente o Evangelho e a oferecer sinais eficazes de esperança.
6. Este é o convite que emerge da celebração do Jubileu. Não é por acaso que o Dia Mundial dos Pobres seja celebrado no final deste ano de graça. Quando a Porta Santa for fechada, deveremos conservar e transmitir os dons divinos que foram derramados nas nossas mãos ao longo de um ano inteiro de oração, conversão e testemunho. Os pobres não são objetos da nossa pastoral, mas sujeitos criativos que nos estimulam a encontrar sempre novas formas de viver o Evangelho hoje. Diante da sucessão de novas ondas de empobrecimento, corre-se o risco de se habituar e resignar-se. Todos os dias, encontramos pessoas pobres ou empobrecidas e, às vezes, pode acontecer que sejamos nós mesmos a possuir menos, a perder o que antes nos parecia seguro: uma casa, comida suficiente para o dia, acesso a cuidados de saúde, um bom nível de educação e informação, liberdade religiosa e de expressão.
Promovendo o bem comum, a nossa responsabilidade social tem o seu fundamento no gesto criador de Deus, que dá a todos os bens da terra: assim como estes, também os frutos do trabalho do homem devem ser igualmente acessíveis. Com efeito, ajudar os pobres é uma questão de justiça, muito antes de ser uma questão de caridade. Como observa Santo Agostinho: «Damos pão a quem tem fome, mas seria muito melhor que ninguém passasse fome e não precisássemos ser generosos para com ninguém. Damos roupas a quem está nu, mas Deus queira que todos estejam vestidos e que ninguém passe necessidades sobre isto» (Comentário à 1 Jo, VIII, 5).
Desejo, portanto, que este Ano Jubilar possa incentivar o desenvolvimento de políticas de combate às antigas e novas formas de pobreza, além de novas iniciativas de apoio e ajuda aos mais pobres entre os pobres. Trabalho, educação, habitação e saúde são condições para uma segurança que jamais se alcançará com armas. Congratulo-me com as iniciativas já existentes e com o empenho que é manifestado diariamente a nível internacional por um grande número de homens e mulheres de boa vontade.
Confiemos em Maria Santíssima, Consoladora dos aflitos, e com Ela entoemos um canto de esperança, fazendo nossas as palavras do Te Deum: «In Te, Domine, speravi, non confundar in aeternum – Em Vós espero, Meu Deus, não serei confundido eternamente».
Vaticano, 13 de junho de 2025, memória de Santo António de Lisboa, Patrono dos pobres
LEÃO PP. XIV
[00729-PO.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Ty jesteś moją nadzieją (por. Ps 71, 5)
1. „Ty bowiem, mój Boże, jesteś moją nadzieją” (Ps 71, 5). Słowa te wypłynęły z serca przytłoczonego poważnymi trudnościami: „Zesłałeś na mnie wiele srogich utrapień” (w. 20) – mówi psalmista. Mimo to, jego dusza jest otwarta i ufna, ponieważ [jest] niezachwiana w wierze, która rozpoznaje wsparcie Boga i to wyznaje: „Bądź mi skałą schronienia i zamkiem warownym” (w. 3). Stąd pochodzi niewzruszona ufność, że nadzieja w Nim nie zawodzi: „W Tobie, Panie, moja ucieczka, niech nie doznam wstydu na wieki” (w. 1).
Pośród prób życia, nadzieja jest ożywiana niezawodną i dodającą otuchy pewnością miłości Boga, rozlanej w sercach przez Ducha Świętego. Dlatego ona nie zawodzi (por. Rz 5, 5), a św. Paweł może napisać do Tymoteusza: „trudzimy się i walczymy, ponieważ złożyliśmy nadzieję w Bogu żywym” (1 Tm 4, 10). Żywy Bóg jest bowiem „dawcą nadziei” (Rz 15, 13), który w Chrystusie, poprzez swoją śmierć i zmartwychwstanie, stał się „naszą nadzieją” (1 Tm 1, 1). Nie możemy zapominać, że zostaliśmy zbawieni w tej nadziei, w której musimy pozostać zakorzenieni.
2. Ubogi może stać się świadkiem silnej i niezawodnej nadziei, właśnie dlatego, że jest ona wyznawana w niepewnych warunkach życia, pełnych niedostatków, kruchości i marginalizacji. On nie liczy na bezpieczeństwo, jakie daje władza i posiadanie; wręcz przeciwnie – cierpi z ich powodu i często pada ich ofiarą. Jego nadzieja może spocząć jedynie gdzie indziej. Uznając, że Bóg jest naszą pierwszą i jedyną nadzieją, również my przechodzimy od nadziei ulotnych do nadziei trwałej. W obliczu pragnienia, aby Bóg był naszym towarzyszem w drodze, bogactwa tracą na znaczeniu, ponieważ odkrywamy prawdziwy skarb, którego naprawdę potrzebujemy. Wyraźnie i mocno rezonują słowa, którymi Pan Jezus napominał swoich uczniów: „Nie gromadźcie sobie skarbów na ziemi, gdzie mól i rdza niszczą i gdzie złodzieje włamują się i kradną. Gromadźcie sobie skarby w niebie, gdzie ani mól, ani rdza nie niszczą i gdzie złodzieje nie włamują się i nie kradną” (Mt 6, 19-20).
3. Największą biedą jest nieznajomość Boga. Przypomniał nam o tym Papież Franciszek, gdy pisał w Evangelii gaudium: „najgorszą dyskryminacją, jakiej doświadczają ubodzy, jest brak opieki duchowej. Olbrzymia większość ubogich otwarta jest szczególnie na wiarę; potrzebują Boga i nie możemy nie ofiarować im Jego przyjaźni, Jego błogosławieństwa, Jego Słowa, sprawowania Sakramentów i propozycji drogi wzrostu i dojrzewania w wierze” (n. 200). Jest tutaj fundamentalna i całkowicie oryginalna świadomość tego, jak odnaleźć w Bogu własny skarb. Jan Apostoł podkreśla bowiem: „Jeśliby ktoś mówił: «Miłuję Boga», a brata swego nienawidził, jest kłamcą, albowiem kto nie miłuje brata swego, którego widzi, nie może miłować Boga, którego nie widzi” (1 J 4, 20).
Jest to prawda wiary i sekret nadziei: wszystkie dobra tej ziemi – rzeczywistość materialna, przyjemności świata, dobrobyt ekonomiczny – choć ważne, nie wystarczają, aby uszczęśliwić serce. Bogactwa często zwodzą i prowadzą do dramatycznych sytuacji ubóstwa, przede wszystkim do przekonania, że nie potrzebujemy Boga i możemy prowadzić własne życie niezależnie od Niego. Przychodzą na myśl słowa św. Augustyna: „Cała twoja ufność niechaj będzie w Bogu: Bądź u Niego żebrakiem, żebyś Nim został napełniony. Bo cokolwiek byś posiadał, nie mając Jego: (…) czuj się potrzebujący Go, abyś został przez Niego napełniony, tym jesteś biedniejszym” (Objaśnienia Psalmów, Ps. 85, 3, tłum. Jan Sulowski, Warszawa 1986, s. 90).
4. Nadzieja chrześcijańska, do której odsyła Słowo Boże, jest pewnością na drodze życia, ponieważ nie zależy od ludzkiej siły, ale od obietnicy Boga, który jest zawsze wierny. Dlatego chrześcijanie od samego początku chcieli utożsamiać nadzieję z symbolem kotwicy, która daje stabilność i bezpieczeństwo. Nadzieja chrześcijańska jest jak kotwica, która przytwierdza nasze serce do obietnicy Pana Jezusa, który zbawił nas przez swoją śmierć i zmartwychwstanie, i który powróci ponownie pośród nas. Nadzieja ta nadal ukazuje jako prawdziwą perspektywę życia „nowe niebo” i „nową ziemię” (2 P 3, 13), gdzie istnienie wszystkich stworzeń znajdzie swój autentyczny sens, ponieważ nasza prawdziwa ojczyzna jest w niebie (por. Flp 3, 20).
W związku z tym, Miasto Boże zobowiązuje nas do działania na rzecz miast ludzkich. Już teraz muszą one zacząć je przypominać. Nadzieja, podtrzymywana przez miłość Bożą rozlaną w naszych sercach przez Ducha Świętego (por. Rz 5, 5), przemienia serce ludzkie w urodzajną ziemię, gdzie może zakiełkować miłość dla życia świata. Tradycja Kościoła nieustannie potwierdza tę wzajemną zależność między trzema cnotami teologalnymi: wiarą, nadzieją i miłością. Nadzieja rodzi się z wiary, która ją karmi i podtrzymuje, opierając się na miłości, która jest matką wszystkich cnót. A miłości potrzebujemy dzisiaj, teraz. Nie jest to obietnica, lecz rzeczywistość, na którą patrzymy z radością i odpowiedzialnością: angażuje nas, kierując nasze decyzje ku dobru wspólnemu. Kto natomiast nie ma miłości, nie tylko nie ma wiary i nadziei, ale odbiera nadzieję swemu bliźniemu.
5. Biblijna zachęta do nadziei niesie zatem ze sobą obowiązek podjęcia konsekwentnej odpowiedzialności w historii, bezzwłocznie. Miłość bowiem „stanowi największe przykazanie społeczne” (Katechizm Kościoła Katolickiego, 1889). Ubóstwo ma przyczyny strukturalne, które powinny być rozwiązane i usunięte. Kiedy to się dzieje, wszyscy jesteśmy wezwani do tworzenia nowych znaków nadziei, które świadczą o chrześcijańskiej miłości, tak jak czynili to liczni święci i święte w każdej epoce. Szpitale i szkoły, na przykład, są instytucjami stworzonymi, aby wyrażać przygarniecie najsłabszych i wykluczonych. Powinny one być częścią polityki publicznej każdego kraju, jednak wojny i nierówności często nadal temu przeszkadzają. Coraz bardziej, znakami nadziei stają się dziś domy rodzinne, wspólnoty dla małoletnich, ośrodki konsultacyjne i pobytowe, jadłodajnie dla ubogich, noclegownie, szkoły ludowe: ileż jest to znaków, często ukrytych, na które być może nie zwracamy uwagi, a które są tak ważne, aby otrząsnąć się z obojętności i pobudzić do zaangażowania w różne formy wolontariatu!
Ubodzy nie są dla Kościoła kwestią poboczną, odwracającą uwagę, ale najbardziej umiłowanymi braćmi i siostrami, ponieważ każdy z nich, swoim istnieniem, a także słowami i mądrością, której jest nośnikiem, skłania do namacalnego dotknięcia prawdy Ewangelii. Zatem Światowy Dzień Ubogich ma na celu przypomnienie naszym wspólnotom, że ubodzy są w centrum całej działalności duszpasterskiej. Nie tylko w jego wymiarze charytatywnym, ale również w tym, co Kościół celebruje i głosi. Bóg przyjął ich ubóstwo, aby uczynić nas bogatymi poprzez ich głosy, ich historie, ich twarze. Wszystkie formy ubóstwa, bez wyjątku, są wezwaniem do konkretnego życia Ewangelią i dawania skutecznych znaków nadziei.
6. Jest to zachęta, która wypływa z obchodów Jubileuszu. To nie przypadek, że Światowy Dzień Ubogich obchodzony jest pod koniec tego roku łaski. Kiedy Drzwi Święte zostaną zamknięte, będziemy musieli zachować i przekazać Boże dary, które zostały złożone w nasze ręce w ciągu całego roku modlitwy, nawrócenia i świadectwa. Ubodzy nie są przedmiotem naszej posługi duszpasterskiej, ale kreatywnymi podmiotami, które skłaniają nas do ciągłego poszukiwania nowych form życia Ewangelią dzisiaj. W obliczu następujących coraz to nowych fal zubożenia, istnieje niebezpieczeństwo przyzwyczajenia się i poddania się. Każdego dnia spotykamy osoby ubogie lub zubożałe, a niekiedy, to nam samym może się zdarzyć mieć mniej, stracić to, co kiedyś wydawało nam się pewne: mieszkanie, odpowiednią ilość pożywienia na każdy dzień, dostęp do opieki zdrowotnej, dobry poziom wykształcenia i informacji, wolność religijną i wolność słowa.
Wspierając dobro wspólne, nasza odpowiedzialność społeczna opiera się na stwórczym geście Boga, który obdarza wszystkich dobrami ziemi: podobnie jak one, również owoce pracy człowieka powinny być dostępne dla wszystkich w równym stopniu. Pomoc ubogim jest bowiem kwestią sprawiedliwości, a nie tylko miłosierdzia. Jak zauważa św. Augustyn: „Dajesz chleb głodnemu; lepiej by jednak było, aby nikt nie łaknął i abyś nie potrzebował nikomu dawać. Odziewasz nagiego; oby wszyscy mieli w co się ubrać i niczego nie potrzebowali!” (Homilie na Ewangelie i Pierwszy List Świętego Jana. Część druga; Homilia 8, p. 5, ATK, Warszawa 1977).
Dlatego mam nadzieję, że ten Rok Jubileuszowy pobudzi rozwój polityki przeciwdziałania starym i nowym formom ubóstwa, a także zachęci do podjęcia nowych inicjatyw na rzecz wsparcia i pomocy najuboższym z ubogich. Praca, edukacja, dom, zdrowie to warunki bezpieczeństwa, którego nigdy nie zapewni się za pomocą broni. Wyrażam uznanie dla istniejących już inicjatyw oraz zaangażowania, które codziennie jest podejmowane na szczeblu międzynarodowym przez dużą liczbę mężczyzn i kobiet dobrej woli.
Powierzmy się Najświętszej Maryi, Pocieszycielce strapionych, i wraz z Nią wznieśmy pieśń nadziei, przyjmując za swoje słowa Te Deum: „In Te, Domine, speravi, non confundar in aeternum” – „W Tobie, Panie, zaufałem, nie zawstydzę się na wieki”.
Watykan, dnia 13 czerwca 2025 r., we wspomnienie św. Antoniego z Padwy, patrona ubogich
LEON PP. XIV
[00729-PL.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
رسالة قداسة البابا لاوُن الرّابع عشر
في اليوم العالمي التّاسع للفقراء
16 تشرين الثّاني/نوفمبر 2025
الأحد الثّالث والثّلاثون من زمن السّنة
”أنت رجائي“ (راجع مزمور 70، 5)
1 "أَنتَ أَيُّها السَّيِّدُ رَجائي" (مزمور 70، 5). تدفّقت هذه الكلمات من قلبٍ مظلومٍ أثقلته صعاب جسيمة. قال صاحب المزامير: "أَنتَ الَّذي أَراني كَثيرًا، مَضايِقَ كَثيرةً وشُرورًا" (الآية 20). بالرّغم من هذا، فإنّ روحه منفتحة وواثقة، لأنّ إيمانه راسخ، وهو يعرف أنّ معونته من عند الله، وهو يعترف بذلك. "كُنْ لي صَخرَةَ حِصْنٍ" (الآية 3). من هنا تتدفّق ثقته التي لا تُقهَربأنَّ رجاءه لن يَخِيب: "بِكَ يا رَبِّ اعتَصَمتُ، فلا أَخزَ لِلأَبَد" (الآية 1).
في وسط محن الحياة، يبقى الرّجاء منتعشًا بيقين محبّة الله الرّاسخ والمُشجّع، الذي يُفيضه الرّوح القدس في القلوب. لذلك، فإنّ "الرّجاء لا يُخَيِّبُ" (رومة 5، 5). كتب القدّيس بولس إلى طيموتاوس: "نحن نَتعَبُ ونُجاهِدُ لِأَنَّنا جَعَلْنا رَجاءَنا في اللهِ الحَيّ" (1 طيموتاوس 4، 10). والله الحيّ هو في الواقع "إله الرّجاء" (رومة 15، 13)، الذي أصبح في المسيح، بموته وقيامته، "رجاءنا" (1 طيموتاوس 1، 1). لا يمكن أن ننسى أنّنا خُلِّصْنا بهذا الرّجاء، الذي يجب أن نبقى فيه راسخين.
2. يمكن للفقراء أن يصيروا شهودًا لرجاءٍ قويٍّ وموثوق، لأنّهم فقراء ويعيشون في ظروفٍ معيشيّةٍ هشّة، قوامها الحرمان والهشاشة والتّهميش. فهم لا يعتمدون على ضمانات السّلطة والامتلاك، بل على العكس، هم غالبًا ضحايا السّلطة وأصحاب الملك. أُسُسُ رجائهم أمر آخر. إذا أدرَكْنا أنّ الله هو رجاؤنا الأوّل والوحيد، ننتقل نحن أيضًا من الآمال الزّائلة إلى الرّجاء الباقي. فعندما نرغب في أن يكون الله رفيق دربنا، نعيد الحجم الصّحيح لثرواتنا، لأنّنا نكتشف إذّاك الكنز الحقيقي الذي نحتاج إليه حقًّا. فيما تدَوِّي فينا عاليَةً وواضحةً كلمات الرّبّ يسوع التي وجَّهها إلى تلاميذه: "لا تَكنِزوا لِأَنفُسِكُم كُنوزًا في الأَرض، حَيثُ يُفسِدُ السُّوسُ والعُثّ، ويَنقُبُ السَّارِقونَ فيَسرِقون. بلِ اكنِزوا لِأَنفُسِكُم كُنوزًا في السَّماء، حَيثُ لا يُفْسِدُ السُّوسُ والصَّدَأ، ولا يَنقُبُ السَّارِقونَ فيَسرِقوا" (متّى 6، 19-20).
3. أعظم فقر هو عدم معرفة الله. هذا ما ذكّرنا به البابا فرنسيس عندما كتب في رسالته ”فرح الإنجيل“: "إنّ أسوأ تمييز يعاني منه الفقراء هو نقص في الرّعاية الرّوحيّة. فالغالبيّة العظمى من الفقراء، ولأنّهم فقراء، منفتحون على الإيمان. إنّهم بحاجة إلى الله، ولا يسعنا إلّا أن نقدِّمَ لهم صداقته، وبركته، وكلمته، والاحتفال بالأسرار المقدّسة، وإرشادهم في طريق تنمية ونضوج في الإيمان" (رقم 200). في هذا يكمن وعيّ أساسي وأصيل يبيِّن لنا كيف نجِدُ كنزنا في الله. في الواقع، يؤكِّد الرّسول يوحنّا فيقول: "إِذا قالَ أَحَد: «إِنِّي أُحِبُّ الله وهو يُبغِضُ أَخاه كانَ كاذِبًا، لِأَنَّ الَّذي لا يُحِبُّ أَخاه وهو يَراه، لا يَستَطيعُ أَن يُحِبَّ اللهَ وهو لا يَراه" (1 يوحنّا 4، 20).
إنّها قاعدة الإيمان وسرّ الرّجاء: كلّ خيرات هذه الأرض، وكلّ الماديات، وملذّات الدّنيا، والرّخاء الاقتصادي، مهما كانت أهمّيّتها، لا تكفي لإسعاد القلب. الثّروات تخدعنا مرارًا وتؤدّي بنا إلى حالات فقرٍ مُريعة، وأوّلها الاعتقاد بأنّنا لسنا بحاجة إلى الله وأنّنا نقدر أن نعيش حياتنا من دون الله. وهنا تتبادر إلى ذهني كلمات القدّيس أغسطينس: "ليكن كلّ رجائكم في الله: اشعروا بالحاجة إليه، لتغتنوا به. فبدونه، مهما كان لكم من أملاك، ستزدادون بها فراغًا" (تفسير المزامير، المزمور 85، 3).
4. الرّجاء المسيحيّ، الذي تشير إليه كلمة الله، هو يقينٌ في أثناء رحلة الحياة، لأنّه لا يعتمد على القوّة البشريّة، بل على وعد الله الأمين دائمًا. ولذلك، سعى المسيحيّون، منذ البداية، إلى ربط الرّجاء برمز المرساة، الذي يوفّر الاستقرار والأمان. فالرّجاء المسيحيّ أشبه بمرساة تُثبّت قلوبنا في وعد الرّبّ يسوع، الذي خلّصنا بموته وقيامته، والذي سيعود إلينا. ويستمرّ هذا الرّجاء في الإشارة إلى ”السّماوات الجديدة“ و”الأرض الجديدة“ (راجع 2 بطرس 3، 13) كأفقٍ حقيقيّ للحياة، حيث تجد جميع المخلوقات معناها الحقيقيّ، لأنّ وطننا الحقيقيّ هو في السّماء (راجع فيلبي 3، 20).
مدينة الله، إذًا، تُلزمنا بمدن البشر. وعليها أن تتشبّه بها منذ الآن. فالرّجاء، مدعومًا بمحبّة الله المُفاضة في قلوبنا بالرّوح القدس (راجع رومة 5، 5)، يُحوّل قلب الإنسان إلى تربة خصبة، حيث تنبت المحبّة من أجل حياة العالم. ويؤكّد تقليد الكنيسة باستمرار التّرابط بين الفضائل الإلهيّة الثّلاث: الإيمان والرّجاء والمحبّة. فالرّجاء يولد من الإيمان الذي يُغذِّيه ويدعمه، على أساس المحبّة أُمِّ الفضائل. ونحن بحاجة إلى المحبّة اليوم، والآن. ليست وعدًا، بل هي واقع ننظر إليها بفرح ومسؤوليّة: إنّها تُشركنا، وتُوجّه قراراتنا نحو الخير العام. أمّا من يفتقر إلى المحبّة، فلا يفتقر إلى الإيمان والرّجاء فحسب، بل يحرم قريبه أيضًا من الرّجاء.
5. لذا، فإنّ دعوة الكتاب المقدّس إلى الأمّل تحمل معها واجبَ تحمُّلِ مسؤوليّاتٍ متماسكة في التّاريخ، دون تأخير. فالمحبّة، في الواقع، "هي أعظم الوصايا الاجتماعيّة" (التّعليم المسيحيّ للكنيسة الكاثوليكيّة، 1889). للفقر أسباب هيكليّة يجب معالجتها والقضاء عليها. وإلى أن يحدث هذا، إنّنا جميعًا مدعُوُّون إلى خلق بوادر أمّل جديدة تشهد على المحبّة المسيحيّة، كما فعل العديد من القدّيسين في كلّ عصر. المستشفيّات والمدارس، على سبيل المثال، مؤسّسات أُنشئت للتعبير عن ترحيبها بالضّعفاء والمهمّشين. يجب أن تكون الآن جزءًا من السّياسات العامّة لكلّ بلد، لكن الحروب وعدم المساواة غالبًا ما يحولان دون ذلك. وبشكل متزايد، صارت بوادر الأمل بيوتًا للعائلات، وجماعات تأوي القاصرين، ومراكز استماع واستقبال، وموائد للفقراء، ومنامات للطّلاب، ومدارس شعبيّة: كم من البوادر المخفيّة غالبًا، وربّما لا ننتبه إليها، ومع ذلك فهي بالغة الأهمّيّة للتخلّص من اللامبالاة ولتحفيز الالتزام في مختلف أشكال التّطوّع!
الفقراء ليسوا للكنيسة مجرّد وسيلة للفت النّظر، بل هم أعزّ الإخوة والأخوات، لأنّ كلّ واحد منهم، بوجوده وبما يحمله من كلمات وحكمة، يحثّنا على أن نلمَسَ لَمسَ اليد حقيقة الإنجيل. لذلك، يهدف اليوم العالمي للفقراء إلى تذكير جماعاتنا بأنّ الفقراء هم محور كلّ عمل رعوي، ليس فقط لأنّه عمل محبّة، بل هو ما تحتفل به وتبشِّرُ به الكنيسة. الله اتّخذ على نفسه فقرهم ليُغنينا بأصواتهم وقصّصهم ووجوههم. جميع أشكال الفقر، دون استثناء، هي دعوة إلى أن نعيش الإنجيل بصورة عمليّة ونعطي بوادر أمل فعّالة.
6. هذه هي الرّسالة التي تأتينا من الاحتفال باليوبيل. وليس صدفةً أن يُحتفل باليوم العالمي للفقراء في نهاية سنة النّعمة هذه. فعندما يُغلَقُ الباب المقدّس، علينا أن نحفظ وننقل العطايا الإلهيّة التي أُغدقت علينا طوال سنة كاملة من الصّلاة والتّوبة والشّهادة للإيمان. الفقراء ليسوا موضوع رعايتنا الرّعويّة، بل هم أشخاص مبدعون يتحدُّوْنَنا لإيجاد طرق جديدة لعيش الإنجيل اليوم. أمام موجات الفقر المتتالية، يبقى خطر التعوّد والاستسلام يهدِّدُنا. نلتقي بالفقراء أو الذين صاروا فقراء كلّ يوم، وقد يحدث أحيانًا أنّنا نفقد نحن ممّا كنّا نملك ونظُنُّه آمِنًا: البيت، أو الطّعام الكافي ليومنا، أو الوصول إلى الرّعاية الصّحّيّة، أو مستوى تعليمي أو إعلامي جيّد، والحرّيّة الدّينيّة، وحرّيّة التّعبير.
عندما نعمل من أجل الخير العام، فإنّ مسؤوليّتنا الاجتماعيّة تستمدّ أساسها من عمل الله الخالق، الذي يعطي خيرات الأرض للجميع. ومثل هذه الخيرات، كذلك يجب أن تكون ثمار عمل الإنسان أيضًا في متناول الجميع بصورة متساوية. في الواقع، مساعدة الفقير هي أوّلًا مسألة عدل قبل أن تكون مسألة محبّة. قال القدّيس أغسطينس: "أنت تُعطي خبزًا للجائع، لكن الأفضل هو ألّا يجوع أحد، حتّى لو لم يبقَ حينها أحد تعطيه. أنت تقدِّم الملابس للعريان، لكن كم هو من الأفضل لو كان للجميع ما يلبسون، ولم يكن أحد محتاجًا" (شرح في رسالة يوحنّا الأولى، 8، 5).
لذا، آمل أن تُشجّع سنة اليوبيل هذه على وضع سياسات لمكافحة أشكال الفقر القديمة والجديدة، وعلى اتّخاذ مبادرات جديدة لدعم ومساعدة أفقر الفقراء. العمل والتّعليم والسّكن والصّحّة هي شروط الأمن الذي لن يتحقّق أبدًا بقوّة السّلاح. أهنئكم على المبادرات القائمة والالتزام الذي يُقدّمه يوميًّا على المستوى الدّولي عدد كبير من الرّجال والنّساء ذوي النّوايا الحسنة.
فلنضع ثقتنا في مريم الكاملة القداسة، ومعزيّة الحزانى، ولنرفع معها نشيد الأمل، مع كلمات النّشيد ”اللّهُمَّ نَمْدَحُكْ“: "توكَّلْتُ عليكَ، يا رَبّ، فلا أَخزَى إلى الأَبد".
من الفاتيكان، يوم 13 حزيران/يونيو 2025، تذكار القدّيس أنطونيوس من بادوفا، شفيع الفقراء.
لاوُن الرّابع عشر
[00729-AR.01] [Testo originale: Italiano]
[B0406-XX.01]