Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Messaggio del Santo Padre Leone XIV per la 111ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2025, 25.07.2025


Messaggio del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Pubblichiamo di seguito il Messaggio del Santo Padre Leone XIV per la 111aGiornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata il 4 e 5 ottobre 2025, in occasione del Giubileo del Migrante e del Mondo Missionario, sul tema: “Migranti, missionari di speranza”.

Messaggio del Santo Padre

“Migranti, missionari di speranza”

Cari Fratelli e Sorelle,

La 111a Giornata Mondiale del Migrante e Rifugiato, che il mio predecessore ha voluto far coincidere con il Giubileo dei migranti e del mondo missionario, ci offre l’occasione di riflettere sul nesso tra speranza, migrazione e missione.

Il contesto mondiale attuale è tristemente segnato da guerre, violenze, ingiustizie e fenomeni meteorologici estremi, che obbligano milioni di persone a lasciare la loro terra d'origine per cercare rifugio altrove. La generalizzata tendenza a curare esclusivamente gli interessi di comunità circoscritte costituisce una seria minaccia alla condivisione di responsabilità, alla cooperazione multilaterale, alla realizzazione del bene comune e alla solidarietà globale a vantaggio di tutta la famiglia umana. La prospettiva di una rinnovata corsa agli armamenti e lo sviluppo di nuove armi, incluse quelle nucleari, la scarsa considerazione degli effetti nefasti della crisi climatica in corso e le profonde disuguaglianze economiche rendono sempre più impegnative le sfide del presente e del futuro.

Di fronte alle teorie di devastazioni globali e scenari spaventosi, è importante che cresca nel cuore dei più il desiderio di sperare in un futuro di dignità e pace per tutti gli esseri umani. Tale futuro è parte essenziale del progetto di Dio sull’umanità e sul resto del creato. Si tratta del futuro messianico anticipato dai profeti: «Vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle, che giocheranno sulle sue piazze. [...] Ecco il seme della pace: la vite produrrà il suo frutto, la terra darà i suoi prodotti, i cieli daranno la rugiada» (Zc 8,4-5.12). E questo futuro è già iniziato, perché è stato inaugurato da Gesù Cristo (cfr. Mc 1,15 e Lc 17,21) e noi crediamo e speriamo nella sua piena realizzazione, poiché il Signore mantiene sempre le sue promesse.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna: «La virtù della speranza risponde all’aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini» (n° 1818). Ed è certamente la ricerca della felicità – e la prospettiva di trovarla altrove – una delle principali motivazioni della mobilità umana contemporanea.

Questo collegamento tra migrazione e speranza si rivela distintamente in molte delle esperienze migratorie dei nostri giorni. Molti migranti, rifugiati e sfollati sono testimoni privilegiati della speranza vissuta nella quotidianità, attraverso il loro affidarsi a Dio e la loro sopportazione delle avversità in vista di un futuro, nel quale intravedono l’avvicinarsi della felicità, dello sviluppo umano integrale. Si rinnova in loro l’esperienza itinerante del popolo di Israele: «O Dio, quando uscivi davanti al tuo popolo, quando camminavi per il deserto, tremò la terra, i cieli stillarono davanti a Dio, quello del Sinai, davanti a Dio, il Dio d’Israele. Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero, o Dio» (Sal 68, 8-11).

In un mondo oscurato da guerre e ingiustizie, anche lì dove tutto sembra perduto, i migranti e i rifugiati si ergono a messaggeri di speranza. Il loro coraggio e la loro tenacia è testimonianza eroica di una fede che vede oltre quello che i nostri occhi possono vedere e che dona loro la forza di sfidare la morte nelle diverse rotte migratorie contemporanee. Anche qui è possibile trovare una chiara analogia con l’esperienza del popolo di Israele errante nel deserto, il quale affronta ogni pericolo fiducioso nella protezione del Signore: «Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge. Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno.» (Sal 91,3-6).

I migranti e i rifugiati ricordano alla Chiesa la sua dimensione pellegrina, perennemente protesa verso il raggiungimento della patria definitiva, sostenuta da una speranza che è virtù teologale. Ogni volta che la Chiesa cede alla tentazione di “sedentarizzazione” e smette di essere civitas peregrina – popolo di Dio pellegrinante verso la patria celeste (Cfr. Agostino, De civitate Dei, Libro XIV-XVI), essa smette di essere “nel mondo” e diventa “del mondo” (cfr. Gv 15,19). Si tratta di una tentazione presente già nelle prime comunità cristiane, tanto che l’apostolo Paolo deve ricordare alla Chiesa di Filippi che «la nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo,il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.» (Fil 3,20-21).

In modo particolare, migranti e rifugiati cattolici possono diventare oggi missionari di speranza nei Paesi che li accolgono, portando avanti percorsi di fede nuovi lì dove il messaggio di Gesù Cristo non è ancora arrivato o avviando dialoghi interreligiosi fatti di quotidianità e di ricerca di valori comuni. Essi, infatti, con il loro entusiasmo spirituale e la loro vitalità possono contribuire a rivitalizzare comunità ecclesiali irrigidite ed appesantite, in cui avanza minacciosamente il deserto spirituale. La loro presenza va allora riconosciuta ed apprezzata come una vera benedizione divina, un’occasione per aprirsi alla grazia di Dio che dona nuova energia e speranza alla sua Chiesa: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”» (Eb 13,2).

Il primo elemento dell’evangelizzazione, come sottolineava San Paolo VI, è generalmente la testimonianza: «tutti i cristiani sono chiamati e possono essere, sotto questo aspetto, dei veri evangelizzatori. Pensiamo soprattutto alla responsabilità che spetta agli emigranti nei Paesi che li ricevono» (Evangelii nuntiandi, 21). Si tratta di una vera missio migrantium - missione realizzata dai migranti - per la quale devono essere assicurate un’adeguata preparazione e un sostegno continuo frutto di un’efficace cooperazione inter-ecclesiale.

Dall’altro lato, anche le comunità che li accolgono possono essere una testimonianza viva di speranza. Speranza intesa come promessa di un presente e di un futuro in cui sia riconosciuta la dignità di tutti come figli di Dio. In tal modo migranti e rifugiati sono riconosciuti come fratelli e sorelle, parte di una famiglia in cui possono esprimere i loro talenti e partecipare pienamente alla vita comunitaria.

In occasione di questa giornata giubilare in cui la Chiesa prega per tutti i migranti e i rifugiati, voglio affidare tutti coloro che si trovano in cammino, così come coloro che si prodigano per accompagnarli, alla materna protezione della Vergine Maria, conforto dei migranti, affinché mantenga viva nel loro cuore la speranza e li sostenga nel loro impegno di costruzione di un mondo che assomigli sempre di più al Regno di Dio, la vera Patria che ci aspetta alla fine del nostro viaggio.

Dal Vaticano, 25 luglio 2025, Festa di San Giacomo Apostolo

LEONE PP. XIV

[00927-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

“Migrants, missionnaires d’espérance”

Chers frères et sœurs,

la 111e Journée Mondiale du Migrant et du Réfugié, que mon prédécesseur a voulu faire coïncider avec le Jubilé des migrants et du monde missionnaire, nous offre l’occasion de réfléchir sur le lien entre espérance, migration et mission.

Le contexte mondial actuel est tristement marqué par les guerres, les violences, les injustices et les phénomènes météorologiques extrêmes qui obligent des millions de personnes à quitter leur terre d’origine pour chercher refuge ailleurs. La tendance généralisée à ne se préoccuper que des intérêts de communautés restreintes constitue une menace grave pour le partage des responsabilités, la coopération multilatérale, la réalisation du bien commun et la solidarité mondiale au profit de toute la famille humaine. La perspective d’une nouvelle course aux armements et le développement de nouvelles armes, y compris nucléaires, le peu de considération accordée aux effets néfastes de la crise climatique actuelle et les profondes inégalités économiques rendent les défis présents et futurs de plus en plus difficiles.

Face aux théories de dévastation mondiale et aux scénarios effrayants, il est important que grandisse dans le cœur de chacun le désir d’espérer un avenir de dignité et de paix pour tous les êtres humains. Un tel avenir est une partie essentielle du projet de Dieu sur l’humanité et le reste de la création. Il s’agit de l’avenir messianique annoncé par les prophètes : « Des vieux et des vieilles s’assiéront encore sur les places de Jérusalem : chacun aura son bâton à la main, à cause du nombre de ses jours. Et les places de la ville seront remplies de petits garçons et de petites filles qui joueront sur les places. [...] Car sa semence sera en paix : la vigne donnera son fruit, la terre donnera ses produits et le ciel donnera sa rosée » (Za 8, 4-5.12). Et cet avenir a déjà commencé, car il a été inauguré par Jésus-Christ (cf. Mc 1, 15 et Lc 17, 21) et nous croyons et espérons en sa pleine réalisation, car le Seigneur tient toujours ses promesses.

Le Catéchisme de l’Église catholique enseigne : « La vertu d’espérance répond à l’aspiration au bonheur placée par Dieu dans le cœur de tout homme; elle assume les espoirs qui inspirent les activités des hommes » (n° 1818). Et c’est certainement la recherche du bonheur – et la perspective de le trouver ailleurs – qui est l’une des principales motivations de la mobilité humaine contemporaine.

Ce lien entre migration et espérance se révèle clairement dans de nombreuses expériences migratoires de notre temps. Beaucoup de migrants, de réfugiés et de personnes déplacées sont des témoins privilégiés de l’espérance vécue au quotidien, à travers leur confiance en Dieu et leur endurance face à l’adversité, dans la perspective d’un avenir où ils entrevoient l’approche du bonheur, du développement humain intégral. L’expérience itinérante du peuple d’Israël se renouvelle en eux : « O Dieu, quand tu sortis à la face de ton peuple, quand tu foulas le désert, la terre trembla, les cieux mêmes fondirent en face de Dieu, en face de Dieu, le Dieu d’Israël. Tu répandis, ô Dieu, une pluie de largesses, ton héritage exténué, toi, tu l’affermis ; ta famille trouva un séjour, celui-là qu'en ta bonté, ô Dieu, tu préparais au pauvre » (Ps 68, 8-11).

Dans un monde assombri par les guerres et les injustices, même là où tout semble perdu, les migrants et les réfugiés se dressent comme des messagers d’espérance. Leur courage et leur ténacité sont le témoignage héroïque d’une foi qui voit au-delà de ce que nos yeux peuvent voir, et leur donne la force de défier la mort sur les différentes routes migratoires contemporaines. On peut également trouver ici une analogie évidente avec l’expérience du peuple d’Israël errant dans le désert, qui affronte tous les dangers avec confiance dans la protection du Seigneur : « C’est lui qui t’arrache au filet de l’oiseleur qui s’affaire à détruire; il te couvre de ses ailes, tu as sous son pennage un abri. Armure et bouclier, sa vérité. Tu ne craindras ni les terreurs de la nuit, ni la flèche qui vole de jour, ni la peste qui marche en la ténèbre, ni le fléau qui dévaste à midi » (Ps 91, 3-6).

Les migrants et les réfugiés rappellent à l’Église sa dimension pèlerine, perpétuellement tendue vers l’atteinte de la patrie définitive, soutenue par une espérance qui est une vertu théologale. Chaque fois que l’Église cède à la tentation de la “sédentarisation” et cesse d’être civitas peregrina – peuple de Dieu en pèlerinage vers la patrie céleste (cf. Augustin, De civitate Dei, Livre XIV-XVI), elle cesse d’être “dans le monde” et devient “du monde” (cf. Jn 15, 19). Cette tentation était déjà présente dans les premières communautés chrétiennes, à tel point que l’apôtre Paul doit rappeler à l’Église de Philippes que « notre cité se trouve dans les cieux, d’où nous attendons ardemment, comme sauveur, le Seigneur Jésus Christ, qui transfigurera notre corps de misère pour le conformer à son corps de gloire, avec cette force qu’il a de pouvoir même se soumettre toutes choses » (Ph 3, 20-21).

De manière particulière, les migrants et les réfugiés catholiques peuvent devenir aujourd’hui des missionnaires d’espérance dans les pays qui les accueillent, en poursuivant de nouveaux chemins de foi là où le message de Jésus-Christ n’est pas encore arrivé ou en engageant des dialogues interreligieux faits de quotidienneté et de recherche de valeurs communes. En effet, par leur enthousiasme spirituel et leur vitalité, ils peuvent contribuer à revitaliser des communautés ecclésiales figées et alourdies, où le désert spirituel avance de manière menaçante. Leur présence doit alors être reconnue et appréciée comme une véritable bénédiction divine, une occasion de s’ouvrir à la grâce de Dieu qui donne une nouvelle énergie et une nouvelle espérance à son Église : « N’oubliez pas l’hospitalité, car c’est grâce à elle que quelques-uns, à leur insu, hébergèrent des anges » (He 13, 2).

Le premier élément de l’évangélisation, comme le soulignait saint Paul VI, est généralement le témoignage : « tous les chrétiens sont appelés et peuvent être, sous cet aspect, de véritables évangélisateurs. Nous pensons spécialement à la responsabilité qui revient aux migrants dans les pays qui les reçoivent » (Evangelii nuntiandi, n. 21). Il s’agit d’une véritable missio migrantium - mission réalisée par les migrants - pour laquelle une préparation adéquate et un soutien continu, fruits d’une coopération inter-ecclésiale efficace, doivent être assurés.

D’autre part, les communautés qui les accueillent peuvent également être un témoignage vivant d’espérance. Espérance comprise comme promesse d’un présent et d’un avenir où la dignité de tous en tant qu’enfants de Dieu est reconnue. Ainsi, les migrants et les réfugiés sont reconnus comme des frères et sœurs, membres d’une famille où ils peuvent exprimer leurs talents et participer pleinement à la vie communautaire.

À l’occasion de cette journée jubilaire où l’Église prie pour tous les migrants et les réfugiés, je voudrais confier tous ceux qui sont en chemin, ainsi que ceux qui se dépensent pour les accompagner, à la protection maternelle de la Vierge Marie, réconfort des migrants, afin qu’elle garde vivante dans leur cœur l’espérance et les soutienne dans leur engagement à construire un monde qui ressemble toujours plus au Royaume de Dieu, la véritable patrie qui nous attend à la fin de notre voyage.

Du Vatican, le 25 juillet 2025, fête de saint Jacques Apôtre

LÉON PP. XIV

[00927-FR.01] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

“Migrants, missionaries of hope”

Dear Brothers and Sisters!

The 111th World Day of Migrants and Refugees, which my predecessor chose to coincide with the Jubilees of Migrants and of the Missions, offers us an opportunity to reflect on the connections between hope, migration and mission.

The current global context is sadly marked by wars, violence, injustice and extreme weather events, which force millions of people to leave their homelands in search of refuge elsewhere. The widespread tendency to look after the interests of limited communities poses a serious threat to the sharing of responsibility, multilateral cooperation, the pursuit of the common good and global solidarity for the benefit of our entire human family. The prospect of a renewed arms race and the development of new armaments, including nuclear weapons, the lack of consideration for the harmful effects of the ongoing climate crisis, and the impact of profound economic inequalities make the challenges of the present and the future increasingly demanding.

Faced with frightening scenarios and the possibility of global devastation, it is important that there be a growing desire in people’s hearts for a future of peace and of respect for the dignity of all. Such a future is essential to God’s plan for humanity and the rest of creation. This is the messianic future anticipated by the prophets: “Old men and old women shall again sit in the streets of Jerusalem, each with staff in hand because of their great age. And the streets of the city shall be full of boys and girls playing in its streets... For there shall be a sowing of peace; the vine shall yield its fruit, the ground shall give its produce, and the skies shall give their dew” (Zech 8:4-5, 12). This future has already begun, since it was inaugurated by Jesus Christ (cf. Mk 1:15; Lk 17:21), and we believe and hope in its full realization, for the Lord is always faithful to his promises.

The Catechism of the Catholic Church teaches: “The virtue of hope responds to the aspiration to happiness which God has placed in the heart of every man and woman; it takes up the hopes that inspire human activities” (N. 1818). What is more, the search for happiness, and the prospect of finding it beyond one’s place of origin, is certainly one of the main motivations for the movement of people today.

This link between migration and hope is clearly evident in many contemporary experiences of migration. Many migrants, refugees and displaced persons are privileged witnesses of hope. Indeed, they demonstrate this daily through their resilience and trust in God, as they face adversity while seeking a future in which they glimpse that integral human development and happiness are possible. Moreover, we can see the itinerant experience of the people of Israel repeated in their own lives: “O God, when you went out before your people, when you marched through the wilderness, the earth quaked, the heavens poured down rain at the presence of God, the God of Sinai, at the presence of God, the God of Israel. Rain in abundance, O God, you showered abroad; you restored your heritage when it languished; your flock found a dwelling in it; in your goodness, O God, you provided for the needy” (Ps 68:7-10).

In a world darkened by war and injustice, even when all seems lost, migrants and refugees stand as messengers of hope. Their courage and tenacity bear heroic testimony to a faith that sees beyond what our eyes can see and gives them the strength to defy death on the various contemporary migration routes. Here too we can find a clear analogy with the experience of the people of Israel wandering in the desert, who faced every danger while trusting in the Lord’s protection: “he will deliver you from the snare of the fowler and from the deadly pestilence; he will cover you with his pinions, and under his wings you will find refuge; his faithfulness is a shield and buckler. You will not fear the terror of the night, or the arrow that flies by day, or the pestilence that stalks in darkness, or the destruction that wastes at noonday” (Ps 91:3-6).

Migrants and refugees remind the Church of her pilgrim dimension, perpetually journeying towards her final homeland, sustained by a hope that is a theological virtue. Each time the Church gives in to the temptation of “sedentarization” and ceases to be a civitas peregrine, God’s people journeying towards the heavenly homeland (cf. Augustine, De Civitate Dei, Books XIV-XVI), she ceases to be “in the world” and becomes “of the world” (cf. Jn 15:19). This temptation was already present in the early Christian communities, so much so that the Apostle Paul had to remind the Church of Philippi that “our citizenship is in heaven, and it is from there that we are expecting a Savior, the Lord Jesus Christ. He will transform the body of our humiliation that it may be conformed to the body of his glory, by the power that also enables him to make all things subject to himself” (Phil 3:20-21).

In a special way, Catholic migrants and refugees can become missionaries of hope in the countries that welcome them, forging new paths of faith where the message of Jesus Christ has not yet arrived or initiating interreligious dialogue based on everyday life and the search for common values. With their spiritual enthusiasm and vitality, they can help revitalize ecclesial communities that have become rigid and weighed down, where spiritual desertification is advancing at an alarming rate. Their presence, then, should be recognized and appreciated as a true divine blessing, an opportunity to open oneself to the grace of God, who gives new energy and hope to his Church: “Do not neglect to show hospitality to strangers, for by doing that some have entertained angels without knowing it” (Heb 13:2).

The first element of evangelization, as Saint Paul VI emphasized, is that of witness: “All Christians are called to this witness, and in this way they can be real evangelizers. We are thinking especially of the responsibility incumbent on migrants in the country that receives them” (Evangelii Nuntiandi, 21). This is a true missio migrantium, a mission carried out by migrants, for which adequate preparation and ongoing support must be ensured through effective inter-ecclesial cooperation.

At the same time, the communities that welcome them can also be a living witness to hope, one that is understood as the promise of a present and a future where the dignity of all as children of God is recognized. In this way, migrants and refugees are recognized as brothers and sisters, part of a family in which they can express their talents and participate fully in community life.

On this Jubilee, when the Church prays for all migrants and refugees, I wish to entrust all those who are on the journey, as well as those who are working to accompany them, to the maternal protection of the Virgin Mary, comfort of migrants, so that she may keep hope alive in their hearts and sustain them in their commitment to building a world that increasingly resembles the Kingdom of God, the true homeland that awaits us at the end of our journey.

From the Vatican, 25 July 2025 Feast of Saint James, Apostle

LEO PP. XIV

[00927-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

“Migranten, Missionare der Hoffnung“

Liebe Brüder und Schwestern,

der 111. Welttag der Migranten und Flüchtlinge, den mein Vorgänger mit der Heilig-Jahr-Feier der Migranten und der Weltmission zusammenfallen lassen wollte, bietet uns die Gelegenheit, über den Zusammenhang zwischen Hoffnung, Migration und Mission nachzudenken.

Die aktuelle Weltlage ist leider von Kriegen, Gewalt, Ungerechtigkeiten und extremen Wetterereignissen geprägt, die Millionen von Menschen dazu zwingen, ihre Heimat zu verlassen und anderswo Zuflucht zu suchen. Die allgemeine Neigung, ausschließlich für die Interessen begrenzter Gemeinschaften einzutreten, stellt eine ernsthafte Bedrohung für die gemeinsame Verantwortung, die multilaterale Zusammenarbeit, die Verwirklichung des Gemeinwohls und die globale Solidarität zum Wohl der gesamten Menschheitsfamilie dar. Die Aussicht auf einen erneuten Rüstungswettlauf und die Entwicklung neuer Waffen, einschließlich nuklearer Waffen, die dürftige Berücksichtigung der verheerenden Auswirkungen der gegenwärtigen Klimakrise und die tiefgehenden wirtschaftlichen Ungleichheiten lassen die Herausforderungen der Gegenwart und Zukunft immer schwieriger werden.

Angesichts der Theorien über globale Verwüstungen und furchtbare Szenarien ist es wichtig, dass in den Herzen der meisten Menschen der Wunsch nach einer Zukunft in Würde und Frieden für alle wächst. Eine solche Zukunft ist ein wesentlicher Bestandteil von Gottes Plan für die Menschheit und die übrige Schöpfung. Es handelt sich um die messianische Zukunft, die von den Propheten angekündigt wurde: »So spricht der Herr der Heerscharen: Greise und Greisinnen werden wieder auf den Plätzen Jerusalems sitzen; jeder hält wegen des hohen Alters seinen Stock in der Hand. Und die Plätze der Stadt werden voller Knaben und Mädchen sein, die auf ihren Plätzen spielen. [...] vielmehr ist das die Saat des Friedens: Der Weinstock gibt seine Frucht, das Land gibt seinen Ertrag und der Himmel gibt seinen Tau. Das alles will ich dem Rest dieses Volkes als Erbbesitz geben« (Sach 8,4-5.12). Und diese Zukunft hat bereits begonnen, denn sie wurde von Jesus Christus eröffnet (vgl. Mk 1,15 und Lk 17,21), und wir glauben und hoffen auf ihre vollständige Verwirklichung, weil der Herr seine Verheißungen immer erfüllt.

Der Katechismus der Katholischen Kirche lehrt: »Die Tugend der Hoffnung entspricht dem Verlangen nach Glück, das Gott in das Herz jedes Menschen gelegt hat. Sie nimmt in sich die Hoffnungen auf, die das Handeln der Menschen beseelen« (Nr. 1818). Und sicherlich ist das Streben nach Glück – und die Aussicht, es anderswo zu finden – eine der Hauptmotivationen für die heutige Mobilität der Menschen.

Diese Verbindung zwischen Migration und Hoffnung zeigt sich deutlich in vielen Migrationserfahrungen unserer Zeit. Viele Migranten, Flüchtlinge und Vertriebene sind privilegierte Zeugen der im Alltag gelebten Hoffnung, indem sie sich Gott anvertrauen und Widrigkeiten ertragen, in der Aussicht auf eine Zukunft, in der sie das Herankommen von Glück und ganzheitlicher menschlicher Entwicklung erahnen. In ihnen erneuert sich die Erfahrung des wandernden Volkes Israel: »Gott, als du deinem Volk voranzogst, als du die Wüste durchschrittest, da bebte die Erde, da ergossen sich die Himmel vor Gott, dem vom Sinai, vor Gott, dem Gott Israels. Gott, du ließest Regen strömen in Fülle über dein verschmachtendes Erbland, das du selbst gegründet. Dein Geschöpf fand dort Wohnung; Gott, in deiner Güte versorgst du den Armen« (Ps 68, 8-11).

In einer Welt, die von Kriegen und Ungerechtigkeiten verdunkelt ist, erheben sich die Migranten und Flüchtlinge selbst dort, wo alles verloren scheint, als Botschafter der Hoffnung. Ihr Mut und ihre Beharrlichkeit sind ein heldenhaftes Zeugnis für einen Glauben, der über das hinausgeht, was unsere Augen sehen können, und der ihnen die Kraft gibt, auf den unterschiedlichen Migrationsrouten unserer Zeit dem Tod zu trotzen. Auch hier lässt sich eine klare Analogie zur Erfahrung des in der Wüste wandernden Volkes Israel finden, das jeder Gefahr im Vertrauen auf den Schutz des Herrn begegnet: »Denn er rettet dich aus der Schlinge des Jägers und aus der Pest des Verderbens. Er beschirmt dich mit seinen Flügeln, unter seinen Schwingen findest du Zuflucht, Schild und Schutz ist seine Treue. Du brauchst dich vor dem Schrecken der Nacht nicht zu fürchten, noch vor dem Pfeil, der am Tag dahinfliegt, nicht vor der Pest, die im Finstern schleicht, vor der Seuche, die wütet am Mittag« (Ps 91.3-6).

Die Migranten und die Flüchtlinge erinnern die Kirche an ihre pilgernde Dimension; sie trachtet stets danach, die endgültige Heimat zu erreichen und wird von einer Hoffnung gestützt, die eine göttliche Tugend ist. Jedes Mal, wenn die Kirche der Versuchung der „Sesshaftigkeit” nachgibt und aufhört, civitas peregrina zu sein – pilgerndes Volk Gottes auf dem Weg zur himmlischen Heimat (vgl. Augustinus, De civitate Dei, Buch XIV-XVI) –, dann hört sie auf, „in der Welt” zu sein, und wird „von der Welt” (vgl. Joh 15,19). Diese Versuchung bestand bereits in den ersten christlichen Gemeinden, so dass der Apostel Paulus die Kirche von Philippi daran erinnern musste: »Denn unsere Heimat ist im Himmel. Von dorther erwarten wir auch Jesus Christus, den Herrn, als Retter, der unseren armseligen Leib verwandeln wird in die Gestalt seines verherrlichten Leibes, in der Kraft, mit der er sich auch alles unterwerfen kann« (Phil 3, 20-21).

Insbesondere katholische Migranten und Flüchtlinge können heute in den Ländern, die sie aufnehmen, zu Missionaren der Hoffnung werden, indem sie dort neue Glaubenswege beschreiten, wo die Botschaft Jesu Christi noch nicht angekommen ist, oder indem sie einen interreligiösen Dialog initiieren, der durch den Alltag und von der Suche nach gemeinsamen Werten geprägt ist. Mit ihrer spirituellen Begeisterung und ihrer Lebendigkeit können sie nämlich dazu beitragen, erstarrte und schwerfällige kirchliche Gemeinschaften wiederzubeleben, in denen die spirituelle Wüste bedrohlich voranschreitet. Ihre Anwesenheit ist daher als wahrer Segen Gottes anzuerkennen und zu wertschätzen, als eine Gelegenheit, sich der Gnade Gottes zu öffnen, die seiner Kirche neue Energie und Hoffnung schenkt: »Vergesst die Gastfreundschaft nicht; denn durch sie haben einige, ohne es zu ahnen, Engel beherbergt!« (Hebr 13,2).

Das erste Element der Evangelisierung ist, wie der heilige Paul VI. betonte, im Allgemeinen das Zeugnis: »Zu diesem Zeugnis sind alle Christen aufgerufen; unter diesem Gesichtspunkt können sie alle wirkliche Träger der Evangelisierung sein. Wir denken insbesondere an die Verantwortung, die die Auswanderer in ihren Gastländern tragen« (Evangelii nuntiandi, 21). Es handelt sich um eine echte missio migrantium – eine Mission, die von den Migranten verwirklicht wird –, für die eine angemessene Vorbereitung und eine kontinuierliche Unterstützung gewährleistet werden müssen, die das Ergebnis einer wirkungsvollen Zusammenarbeit innerhalb der Kirche sind.

Andererseits können auch die Gemeinschaften, die sie aufnehmen, ein lebendiges Zeugnis der Hoffnung sein. Der Hoffnung im Sinne des Versprechens einer Gegenwart und einer Zukunft, in der die Würde aller als Kinder Gottes anerkannt wird. Auf diese Weise werden Migranten und Flüchtlinge als Brüder und Schwestern anerkannt, als Teil einer Familie, in der sie ihre Talente entfalten und uneingeschränkt am Gemeinschaftsleben teilnehmen können.

Aus Anlass dieses Welttages im Heiligen Jahr, zu dem die Kirche für alle Migranten und Flüchtlinge betet, möchte ich alle, die sich auf der Reise befinden, sowie diejenigen, die sich für ihre Begleitung einsetzen, dem mütterlichen Schutz der Jungfrau Maria, der Trösterin der Migranten, anvertrauen, damit sie die Hoffnung in ihren Herzen lebendig halte und sie in ihrem Engagement für den Aufbau einer Welt unterstütze, die immer mehr dem Reich Gottes ähnelt, jener wahren Heimat, die uns am Ende unserer Reise erwartet.

Aus dem Vatikan, am 25. Juli 2025, dem Fest des heiligen Apostels Jakobus

LEO PP. XIV

[00927-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

“Migrantes, misioneros de esperanza”

Queridos hermanos y hermanas:

La 111ª Jornada Mundial del Migrante y del Refugiado, que mi predecesor quiso que coincidiera con el Jubileo de los migrantes y del mundo misionero, nos ofrece la oportunidad de reflexionar sobre el vínculo entre esperanza, migración y misión.

El contexto mundial actual está tristemente marcado por guerras, violencia, injusticias y fenómenos meteorológicos extremos, que obligan a millones de personas a abandonar su tierra natal en busca de refugio en otros lugares. La tendencia generalizada de velar exclusivamente por los intereses de comunidades circunscritas constituye una grave amenaza para la asignación de responsabilidades, la cooperación multilateral, la consecución del bien común y la solidaridad global en beneficio de toda la familia humana. La perspectiva de una nueva carrera armamentística y el desarrollo de nuevas armas ―incluidas las nucleares―, la escasa consideración de los efectos nefastos de la crisis climática actual y las profundas desigualdades económicas hacen que los retos del presente y del futuro sean cada vez más difíciles.

Ante las teorías de devastación global y escenarios aterradores, es importante que crezca en el corazón de la mayoría el deseo de esperar un futuro de dignidad y paz para todos los seres humanos. Ese futuro es parte esencial del proyecto de Dios para la humanidad y el resto de la creación. Se trata del futuro mesiánico anticipado por los profetas: «Los ancianos y las ancianas se sentarán de nuevo en las plazas de Jerusalén, cada uno con su bastón en la mano, a causa de sus muchos años. Las plazas de la ciudad se llenarán de niños y niñas, que jugarán en ellas. [...] Porque hay semillas de paz: la viña dará su fruto, la tierra sus productos y el cielo su rocío» (Zc 8,4-5.12). Y este futuro ya ha comenzado, porque fue inaugurado por Jesucristo (cf. Mc 1,15 y Lc 17,21) y nosotros creemos y esperamos en su plena realización, ya que el Señor siempre cumple sus promesas.

El Catecismo de la Iglesia Católica nos dice que «la virtud de la esperanza corresponde al anhelo de felicidad puesto por Dios en el corazón de todo hombre; asume las esperanzas que inspiran las actividades de los hombres» (n° 1818). Y sin duda, la búsqueda de la felicidad —y la perspectiva de encontrarla en otro lugar— es una de las principales motivaciones de la movilidad humana contemporánea.

Esta conexión entre migración y esperanza se manifiesta claramente en muchas de las experiencias migratorias de nuestros días. Numerosos migrantes, refugiados y desplazados son testigos privilegiados de la esperanza vivida en la cotidianidad, a través de su confianza en Dios y su resistencia a las adversidades con vistas a un futuro en el que vislumbran la llegada de la felicidad y el desarrollo humano integral. En ellos se renueva la experiencia itinerante del pueblo de Israel: «Oh Dios, cuando saliste al frente de tu pueblo, cuando avanzabas por el desierto, tembló la tierra y el cielo dejó caer su lluvia, delante de Dios –el del Sinaí–, delante de Dios, el Dios de Israel. Tú derramaste una lluvia generosa, Señor: tu herencia estaba exhausta y tú la reconfortaste; allí se estableció tu familia, y tú, Señor, la afianzarás por tu bondad para con el pobre» (Sal 68, 8-11).

En un mundo oscurecido por guerras e injusticias, incluso allí donde todo parece perdido, los migrantes y refugiados se erigen como mensajeros de esperanza. Su valentía y tenacidad son un testimonio heroico de una fe que ve más allá de lo que nuestros ojos pueden ver y que les da la fuerza para desafiar la muerte en las diferentes rutas migratorias contemporáneas. También aquí es posible encontrar una clara analogía con la experiencia del pueblo de Israel errante por el desierto, que afronta todos los peligros confiando en la protección del Señor: «Él te librará de la red del cazador, y de la peste perniciosa; te cubrirá con sus plumas, y hallarás un refugio bajo sus alas. Su brazo es escudo y coraza. No temerás los terrores de la noche, ni la flecha que vuela de día, ni la peste que acecha en las tinieblas, ni la plaga que devasta a pleno sol» (Sal 91,3-6).

Los migrantes y los refugiados recuerdan a la Iglesia su dimensión peregrina, perpetuamente orientada a alcanzar la patria definitiva, sostenida por una esperanza que es virtud teologal. Cada vez que la Iglesia cede a la tentación de la “sedentarización” y deja de ser civitas peregrina —el pueblo de Dios peregrino hacia la patria celestial (cf. San Agustín, La ciudad de Dios, Libro XIV-XVI)—, deja de estar “en el mundo” y pasa a ser “del mundo” (cf. Jn 15,19). Se trata de una tentación ya presente en las primeras comunidades cristianas, hasta tal punto que el apóstol Pablo tiene que recordar a la Iglesia de Filipos que «nosotros somos ciudadanos del cielo, y esperamos ardientemente que venga de allí como Salvador el Señor Jesucristo. Él transformará nuestro pobre cuerpo mortal, haciéndolo semejante a su cuerpo glorioso, con el poder que tiene para poner todas las cosas bajo su dominio» (Flp 3,20-21).

De manera particular, los migrantes y refugiados católicos pueden convertirse hoy en misioneros de esperanza en los países que los acogen, llevando adelante nuevos caminos de fe allí donde el mensaje de Jesucristo aún no ha llegado o iniciando diálogos interreligiosos basados en la vida cotidiana y la búsqueda de valores comunes. En efecto, con su entusiasmo espiritual y su dinamismo, pueden contribuir a revitalizar comunidades eclesiales rígidas y cansadas, en las que avanza amenazadoramente el desierto espiritual. Su presencia debe ser reconocida y apreciada como una verdadera bendición divina, una oportunidad para abrirse a la gracia de Dios, que da nueva energía y esperanza a su Iglesia: «No se olviden de practicar la hospitalidad, ya que gracias a ella, algunos, sin saberlo, hospedaron a los ángeles» (Hb 13,2).

El primer elemento de la evangelización, como subrayaba san Pablo VI, es generalmente el testimonio: «Todos los cristianos están llamados a este testimonio y, en este sentido, pueden ser verdaderos evangelizadores. Se nos ocurre pensar especialmente en la responsabilidad que recae sobre los emigrantes en los países que los reciben» (Evangelii nuntiandi, 21). Se trata de una verdadera missio migrantium ―misión realizada por los migrantes— para la cual se debe garantizar una preparación adecuada y un apoyo continuo, fruto de una cooperación intereclesial eficaz.

Por otro lado, las comunidades que los acogen también pueden ser un testimonio vivo de esperanza. Esperanza entendida como promesa de un presente y un futuro en el que se reconozca la dignidad de todos como hijos de Dios. De este modo, los migrantes y refugiados son reconocidos como hermanos y hermanas, parte de una familia en la que pueden expresar sus talentos y participar plenamente en la vida comunitaria.

Con motivo de esta jornada jubilar en la que la Iglesia reza por todos los migrantes y refugiados, deseo encomendar a todos los que están en camino, así como a los que se esfuerzan por acompañarlos, a la protección maternal de la Virgen María, consuelo de los migrantes, para que mantenga viva en sus corazones la esperanza y los sostenga en su compromiso de construir un mundo que se parezca cada vez más al Reino de Dios, la verdadera Patria que nos espera al final de nuestro viaje.

Vaticano, 25 de julio de 2025, Fiesta de Santiago Apóstol

LEÓN PP. XIV

[00927-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

“Migrantes, missionários de esperança”

Queridos irmãos e irmãs,

O 111º Dia Mundial do Migrante e do Refugiado, que o meu predecessor quis fazer coincidir com o Jubileu dos Migrantes e do Mundo Missionário, oferece-nos a oportunidade de refletir sobre a relação entre esperança, migração e missão.

O atual contexto mundial é tristemente marcado por guerras, violência, injustiças e fenómenos meteorológicos extremos, que obrigam milhões de pessoas a deixar a sua terra natal em busca de refúgio noutros lugares. A tendência generalizada de cuidar exclusivamente dos interesses de comunidades circunscritas constitui uma séria ameaça à partilha de responsabilidades, à cooperação multilateral, à realização do bem comum e à solidariedade global em benefício de toda a família humana. A perspectiva de uma nova corrida ao armamento e o desenvolvimento de novas armas, incluindo aquelas nucleares, a pouca consideração pelos efeitos nefastos da atual crise climática e as profundas desigualdades económicas tornam cada vez mais difíceis os desafios do presente e do futuro.

Perante as previsões de devastação global e cenários assustadores, é importante que cresça no coração de cada vez mais pessoas o desejo de esperar um futuro de dignidade e paz para todos os seres humanos. Esse futuro é parte essencial do projeto de Deus para a humanidade e para o resto da criação. Trata-se do futuro messiânico antecipado pelos profetas: «Velhos e velhas sentar-se-ão ainda nas praças de Jerusalém; cada um terá na mão o seu bastão, por causa da sua muita idade. As praças da cidade ficarão cheias de meninos e meninas que brincarão nelas. […] Semearei a paz: a vinha dará o seu fruto, a terra os seus produtos e o céu o seu orvalho» (Zc 8, 4-5.12). E este futuro já começou, porque foi inaugurado por Jesus Cristo (cf. Mc 1, 15 e Lc 17, 21) e nós cremos e esperamos a sua plena realização, pois o Senhor sempre cumpre as suas promessas.

O Catecismo da Igreja Católica ensina: «A virtude da esperança corresponde ao desejo de felicidade que Deus colocou no coração de todo o homem; assume as esperanças que inspiram as atividades dos homens» (nº 1818). E é certamente a busca da felicidade – e a expectativa de a encontrar em outro lugar – uma das principais motivações da mobilidade humana contemporânea.

Esta ligação entre migração e esperança revela-se claramente em muitas das experiências migratórias dos nossos dias. Muitos migrantes, refugiados e deslocados são testemunhas privilegiadas da esperança vivida no quotidiano, através da sua confiança em Deus e da sua capacidade de suportar as adversidades, em vista de um futuro em que vislumbram a aproximação da felicidade e do desenvolvimento humano integral. Renova-se neles a experiência itinerante do povo de Israel: «Ó Deus, quando saíste à frente do teu povo, avançando pelo deserto, a terra tremeu e a chuva caiu do céu, na presença do Deus do Sinai, na presença de Deus, o Deus de Israel. Fizeste cair, ó Deus, a chuva com abundância; restauraste as forças à tua herança extenuada. O teu povo ficou restabelecido, e Tu, ó Deus, reconfortaste o pobre com a tua bondade» (Sl 68, 8-11).

Num mundo obscurecido por guerras e injustiças, mesmo onde tudo parece perdido, os migrantes e refugiados erguem-se como mensageiros de esperança. A sua coragem e tenacidade são testemunho heroico de uma fé que vê além do que os nossos olhos podem ver e que lhes dá força para desafiar a morte nas diferentes rotas migratórias contemporâneas. Também aqui é possível encontrar uma clara analogia com a experiência do povo de Israel errante no deserto, que enfrenta todos os perigos confiando na proteção do Senhor: «Ele há-de livrar-te da armadilha do caçador e do flagelo maligno. Ele te cobrirá com as suas penas; debaixo das suas asas encontrarás refúgio; a sua fidelidade é escudo e couraça. Não temerás o terror da noite, nem da seta que voa de dia, nem da peste que alastra nas trevas, nem do flagelo que mata em pleno dia» (Sl 91, 3-6).

Os migrantes e refugiados lembram à Igreja a sua dimensão peregrina, em permanente busca da pátria definitiva, sustentada por uma esperança que é virtude teologal. Sempre que a Igreja cede à tentação da “sedentarização” e deixa de ser civitas peregrina – povo de Deus peregrino rumo à pátria celeste (cf. Agostinho, De civitate Dei, Livro XIV-XVI), deixa de estar «no mundo» e torna-se «do mundo» (cf. Jo 15, 19). Trata-se de uma tentação já presente nas primeiras comunidades cristãs, a ponto de o apóstolo Paulo ter de recordar à Igreja de Filipos que «a cidade a que pertencemos está nos céus, de onde certamente esperamos o Salvador, o Senhor Jesus Cristo. Ele transfigurará o nosso pobre corpo, conformando-o ao seu corpo glorioso, com aquela energia que o torna capaz de a si mesmo sujeitar todas as coisas» (Fl 3, 20-21).

Hoje, os migrantes e refugiados católicos podem, de modo particular, tornar-se missionários de esperança nos países que os acolhem, levando adiante novos caminhos de fé onde a mensagem de Jesus Cristo ainda não chegou ou iniciando diálogos inter-religiosos feitos de quotidianidade e busca de valores comuns. Com o seu entusiasmo espiritual e a sua vitalidade, podem contribuir para revitalizar comunidades eclesiais endurecidas e sobrecarregadas, nas quais avança de forma ameaçadora o deserto espiritual. A sua presença deve, portanto, ser reconhecida e apreciada como uma verdadeira bênção divina, uma oportunidade para se abrir à graça de Deus, que dá nova energia e esperança à sua Igreja: «Não vos esqueçais da hospitalidade, pois, graças a ela, alguns, sem o saberem, hospedaram anjos» (Heb 13, 2).

Como sublinhou São Paulo VI, o primeiro elemento da evangelização é geralmente o testemunho: «Todos os cristãos são chamados a dar este testemunho e podem ser, sob este aspecto, verdadeiros evangelizadores. E aqui pensamos de modo especial na responsabilidade que se origina para os migrantes nos países que os recebem» (Evangelii nuntiandi, 21). Trata-se de uma verdadeira missio migrantium – missão realizada pelos migrantes –, para a qual deve ser assegurada uma preparação adequada e um apoio contínuo, fruto de uma eficaz cooperação intereclesial.

Por outro lado, também as comunidades que os acolhem podem ser um testemunho vivo de esperança, entendida como promessa de um presente e de um futuro em que seja reconhecida a dignidade de todos como filhos de Deus. Dessa forma, os migrantes e refugiados são reconhecidos como irmãos e irmãs, parte de uma família em que podem expressar os seus talentos e participar plenamente na vida comunitária.

Por ocasião deste Dia Jubilar, em que a Igreja reza pelos migrantes e refugiados, quero confiar à proteção maternal da Virgem Maria, Socorro dos migrantes, todos os que estão a caminho, assim como aqueles que se esforçam em acompanhá-los, para que Ela mantenha viva nos seus corações a esperança e os sustente no seu empenho em construir um mundo que se assemelhe cada vez mais ao Reino de Deus, a verdadeira pátria que nos espera no fim da nossa viagem.

Vaticano, na Festa de São Tiago Apóstolo, 25 de julho de 2025

LEÃO PP. XIV

[00927-PO.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

“Migranci, misjonarze nadziei”

Drodzy Bracia i Siostry!

Kolejny, 111. Światowy Dzień Migranta i Uchodźcy, który mój Poprzednik postanowił połączyć z Jubileuszem Migrantów i Świata Misyjnego, stwarza nam okazję do refleksji nad związkiem pomiędzy nadzieją, migracją a misją.

Obecna sytuacja światowa jest niestety naznaczona wojnami, przemocą, niesprawiedliwością i ekstremalnymi zjawiskami pogodowymi, które zmuszają miliony ludzi do opuszczenia swojej ziemi ojczystej w poszukiwaniu schronienia gdzie indziej. Powszechna tendencja do dbania wyłącznie o interesy ograniczonych społeczności, stanowi poważne zagrożenie dla dzielenia się odpowiedzialnością, dla wielostronnej współpracy, urzeczywistniania dobra wspólnego i globalnej solidarności z korzyścią dla całej rodziny ludzkiej. Perspektywa wznowienia wyścigu zbrojeń i rozwoju nowych rodzajów broni, w tym broni jądrowej, słabe uwzględnienie negatywnych skutków trwającego kryzysu klimatycznego oraz głębokie nierówności ekonomiczne sprawiają, że wyzwania teraźniejszości i przyszłości stają się coraz trudniejsze.

W obliczu teorii globalnej zagłady i przerażających scenariuszy, ważne jest, aby w sercach większości wzrosła nadzieja na przyszłość godną wszystkich ludzi. Taka przyszłość jest istotną częścią Bożego planu wobec ludzkości i pozostałego stworzenia. Chodzi o przyszłość mesjańską zapowiedzianą przez proroków: „I znowu staruszkowie i staruszki zasiądą na placach Jeruzalem, wszyscy z laskami w ręku z powodu podeszłego wieku. I zaroją się place miasta od bawiących się tam chłopców i dziewcząt. (…) Teraz zasiewy jego będą rosły w spokoju, winnice okryją się owocami, ziemia wyda plony, niebiosa dostarczą rosy” (Za 8, 4-5.12). I ta przyszłość już się rozpoczęła, ponieważ została zapoczątkowana przez Jezusa Chrystusa (por. Mk 1, 15 i Łk 17, 21), a my wierzymy i mamy nadzieję na jej pełną realizację, ponieważ Pan zawsze dotrzymuje swoich obietnic.

Katechizm Kościoła Katolickiego naucza: „Cnota nadziei odpowiada dążeniu do szczęścia, złożonemu przez Boga w sercu każdego człowieka; podejmuje ona te oczekiwania, które inspirują działania ludzi” (n. 1818). I z pewnością poszukiwanie szczęścia – oraz perspektywa znalezienia go gdzie indziej – jest jedną z głównych motywacji współczesnej ludzkiej mobilności.

To powiązanie między migracją a nadzieją, wyraźnie ujawnia się w wielu współczesnych doświadczeniach migracyjnych. Wielu migrantów, uchodźców i przesiedleńców jest uprzywilejowanymi świadkami nadziei przeżywanej w codzienności, poprzez zaufanie Bogu i znoszenie przeciwności losu w oczekiwaniu na przyszłość, w której dostrzegają zbliżające się szczęście i integralny rozwój człowieka. Odnawia się w nich doświadczenie wędrówki ludu Izraela: „Boże, gdy szedłeś przed ludem Twoim, gdy kroczyłeś przez pustynię, zadrżała ziemia, niebo deszcz zesłało przed obliczem Boga, przed Bogiem Izraela. Deszcz obfity zesłałeś, Boże, Tyś orzeźwił swe znękane dziedzictwo. Twoja rodzina, Boże, znalazła to mieszkanie, które w swej dobroci dałeś ubogiemu” (Ps 68, 8-11).

W świecie dotkniętym wojnami i niesprawiedliwościami, nawet tam, gdzie wszystko wydaje się stracone, migranci i uchodźcy stają się zwiastunami nadziei. Ich odwaga i upór są heroicznym świadectwem wiary, która widzi ponad to, co widzą nasze oczy, i daje im siłę, by stawić czoła śmierci na różnych współczesnych szlakach migracyjnych. Również tutaj można dostrzec wyraźną analogię do doświadczenia ludu Izraela wędrującego po pustyni, który zmaga się z wszelkim niebezpieczeństwom, ufając opiece Pana: „Bo On sam cię wyzwoli z sideł myśliwego i od słowa niosącego zgubę. Okryje cię swoimi piórami, pod Jego skrzydła się schronisz; wierność Jego jest puklerzem i tarczą. Nie ulękniesz się strachu nocnego ani strzały za dnia lecącej, ani zarazy skradającej się w mroku, ani moru niszczącego w południe” (Ps 91, 3-6).

Migranci i uchodźcy przypominają Kościołowi o jego wymiarze pielgrzymim, nieustannie dążącym do osiągnięcia ostatecznej ojczyzny, podtrzymywanym przez nadzieję, która jest cnotą teologalną. Za każdym razem, gdy Kościół ulega pokusie „osiedlenia się” i przestaje być civitas peregrina – ludem Bożym pielgrzymującym ku ojczyźnie niebieskiej (por. Augustyn, O Państwie Bożym, Księga XIV-XVI), przestaje być „w świecie” i staje się „ze świata” (por. J 15, 19). Jest to pokusa obecna już w pierwszych wspólnotach chrześcijańskich, do tego stopnia, że Apostoł Paweł musi przypomnieć Kościołowi w Filippi, iż „nasza bowiem ojczyzna jest w niebie. Stamtąd też jako Zbawcy wyczekujemy Pana Jezusa Chrystusa, który przekształci nasze ciało poniżone, w podobne do swego chwalebnego ciała tą mocą, jaką może On także wszystko, co jest, sobie podporządkować” (Flp 3, 20-21).

W szczególny sposób, katolicy migranci i uchodźcy mogą stać się dziś misjonarzami nadziei w przyjmujących ich krajach, wskazując nowe drogi wiary tam, gdzie orędzie Jezusa Chrystusa jeszcze nie dotarło, lub inicjując dialog międzyreligijny oparty na życiu powszednim i poszukiwaniu wspólnych wartości. Dzięki swojemu duchowemu entuzjazmowi i żywotności mogą się oni bowiem przyczynić do ożywienia skostniałych i ociężałych wspólnot kościelnych, w których groźnie poszerza się pustynia duchowa. Ich obecność należy zatem uznać i docenić jako prawdziwe błogosławieństwo Boże, okazję do otwarcia się na łaskę Boga, który daje nową energię i nadzieję swojemu Kościołowi: „Nie zapominajcie też o gościnności, gdyż przez nią niektórzy, nie wiedząc, aniołom dali gościnę” (Hbr 13, 2).

Pierwszym elementem ewangelizacji, jak podkreślał św. Paweł VI, jest ogólnie świadectwo: „Do dawania takiego świadectwa powołani są wszyscy chrześcijanie, którzy z tej racji mogą być prawdziwymi głosicielami Ewangelii. Szczególnie myślimy tu o obowiązku i zadaniu emigrantów w tych krajach, które ich przyjęły w gościnę” (Evangelii nuntiandi, 21). Jest to prawdziwa missio migrantium – misja realizowana przez migrantów – której należy zapewnić odpowiednie przygotowanie i stałe wsparcie, będące owocem skutecznej współpracy międzykościelnej.

Z drugiej strony, również wspólnoty, które ich przyjmują, mogą być żywym świadectwem nadziei. Nadziei rozumianej jako obietnica takiej teraźniejszości i przyszłości, w której uznaje się godność wszystkich jako dzieci Boga. W ten sposób migranci i uchodźcy są uznawani za braci i siostry, część rodziny, w której mogą wyrażać swoje talenty i w pełni uczestniczyć w życiu wspólnotowym.

Z okazji tego dnia jubileuszowego, w którym Kościół modli się za wszystkich migrantów i uchodźców, chciałbym powierzyć wszystkich tych, którzy są w drodze, a także tych, którzy poświęcają się, aby im towarzyszyć, macierzyńskiej opiece Maryi Panny, Pocieszycielki Migrantów, aby zachowała w ich sercach nadzieję i wspierała ich w wysiłkach na rzecz budowania świata, który będzie coraz bardziej przypominał królestwo Boże, prawdziwą Ojczyznę, która czeka na nas u kresu naszej podróży.

Watykan, dnia 25 lipca 2025 r., w święto Świętego Jakuba Apostoła

LEON PP. XIV

[00927-PL.01] [Testo originale: Italiano]

[B0517-XX.02]